A bocce ferme e smaltita (solo in parte: in Campidoglio si approntano grandi feste d’accoglienza) la sbornia trionfalistica inneggiante a “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, proclamato’miglior film straniero’, sarebbe il caso di dedicare un sintetico panorama critico all’esito complessivo di questa 86ma edizione del consueto raduno di un gotha internazionale, annoverante gente di cinema e ‘infiltrati’ a vario titolo (meglio se mecenati o munifici protettori). Sempre ispirati alle capacità promozionali dello star system nel ‘segreti caveau’ delle relazioni che contano e delle ‘cordate’ pro o contro una certa opera o un determinati trend dell’immaginario collettivo. Condizione essenziale affinché la prestigiosa statuetta possa avere, per destinazione, il ‘politicamente corretto’ e il duro zoccolo del botteghino.
Rispetto al successo di Sorrentino (che, a nostro parere, realizza un film ‘virtuoso’ e di alto profilo stilistico, ma pullulante di stereotipi, mistificazioni, barocche prospettive socio-antropologiche, sull’effige di una ‘certa Roma’ provinciale e inesistente, riesumata dai fasti illusori d’epoca craxiana: fra nani, ballerini ed altra fauna danzante), direi che la più oggettiva, pragmatica osservazione in merito sia quella che ieri sintetizzava un critico di lungo corso come Enzo Natta: “L’Oscar per il miglior film straniero attribuito a Sorrentino è qualcosa di più di una batteria ricaricata, è il miglior volano per riavviare il motore di una cinematografia spenta, ovvero restituire lo sprint perduto al nostro cinema”. Quindi imprimergli coraggio, ricerca nuovi stimoli capaci di andare oltre “le asfittiche commedie nelle quali sembrano consumarsi tutte le sue forze”. Non poco se si pensa che un premio del genere mancava a noi da quindici anni, cioè dai tempi di “La vita è bella” di Roberto Benigni.
Quanto al resto, mai dimenticare che anche la kermesse degli Oscar risponde ad una rigida gerarchia strategica: da una parte le statuette ‘pregiate’ (miglior film, miglior regia, migliori attori, miglior film straniero perché non anglofono), dall’altra i premi alle mirabilia del digitale e della tecnologia (fotografia, montaggio, scenografia, costumi, ecc.), che, pur essendo classificati ‘riconoscimenti di complemento’ restano, pur sempre, fiore all’occhiello (di produttori e realizzatori) e veicolo pubblicitario per lo sfruttamento intensivo dalle piattaforme dell’home video. Ciò premesso, non v’è dubbio che l’affermazione più vigorosa (miglior film, regia, miglior attore e migliore attrice) è quella del (discutibilissimo, manicheo, ‘’edificante’ ) “12 anni schiavo” di Steve McQueen, a dimostrazione che “il nero e ruvido mantello della cattiva coscienza” non è riuscito a soffocare il “rimorso dello schiavismo” enucleante quell’inconscio collettivo, che (come diceva Hitchcock e ci ricorda Natta) è l’uomo invisibile (o il convitato di pietra?) nella ‘notte delle stelle’ – nascenti e cadenti.
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Miglior regia, inoltre, ad Alfonso Cuaròn, che librando tra le siderali orbite di “Gravity”, ha fatto incetta di tutti i premi presenti e futuribili (sei statuette per i contributi tecnici). Qualche sorpresa per l’individuazione del migliore attore protagonista nella persona dell’ottimo Matthew McConaughey, interprete di “Dallas Buyers Club” di Jean-Marc Vallée (soffiando a Leonardo Di Caprio, protagonista di “The wolf of Wall Street “ di Martin Scorsese una statuetta che sembrava ‘precotta’ per lui). Migliore attrice, ci si augura a ‘suffragio universale’, la splendida e impareggiabile Cate Blanchette di “Blue Jasmine”, diretta da Woody Allen.
Quanto al resto, mai dimenticare che – allo Shrine Auditorium di Los Angeles- parametri , misure e carature hanno valenze diverse che altrove. Spesso basate su vistosi, ma tacitamente vezzeggiati conflitti d’interessi . Il polmone pulsante dei Premi Oscar è dato infatti dalla sua l’autoreferenzialità, che si (ben) traduce in autocelebrazione del (sovente) effimero e della dichiarata appartenenza ad una ‘impenetrabile’ lobby di miliardari e faccendieri.
I membri dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences (seimilacinquecento, per l’esattezza) appartengono alle più svariate maestranze creative ed operative dell’industria hollywoodiana. E non per nulla i riconoscimenti si assegnano in una sorta di ‘camera caritatis’, che è “espressione medioevale che identificava il luogo in cui si gestiva il potere “ … e la compassionevole elargizione. Quindi un passaggio di ‘comete’ benefattrici il cui recondito monito non è quello della ‘grande bellezza”’, ma della ‘grande potenza’.
Si vota, insomma, per il clan o la ‘factory’ che (in misura sfacciatamente corporativa, protezionistica, erotico\nepotistica) ha procurato lavoro e si spera ne procurerà ancora, a compensi sempre più elevati. Se qualche anima bella volesse scandalizzarsi, potremmo disincantarla informandola che analoga logica (su scala minore) sia applica per l’attribuzione dei David di Donatello italiani, i César francesi, i Bafta inglesi. Ed a chi volesse insistere nello sbalordire e starci male (i geni incompresi, prevalentemente) non resta che rivolgere,parafrasata l’immortale constatazione del ‘cinico’ (e sapienziale) Billy Wilder: “E’ l’industria, bellezze!”. Del cinema e di tutto ciò che è destinato al mercato. O per soldi o per denaro.