Di fronte a quel che ha detto l’ispettore di Pubblica Sicurezza, in pensione Enrico Rossi all’Ansa, rivelando che il 16 marzo 1978 in via Fani c’erano uomini dei Servizi Segreti, è necessario mettere in fila gli elementi di fatto di cui disponiamo dopo cinque processi penali e varie commissioni di inchiesta formate dopo la tragedia consumata tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978. Vale la pena, anzitutto, ricordare che la commissione presieduta da Giovanni Pellegrino sulle stragi e sui terrorismi nella relazione, presentata quasi vent’anni fa, nel 1995, aveva, da una parte, ricordato i risultati a cui erano giunti i processi penali e le precedenti ricerche ma, d’altra parte, aveva indicato i punti fondamentali da cui partire per risolvere il mistero del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro.
Per quanto riguarda il primo aspetto, la Commissione Stragi e il pubblico ministero del quinto processo, Marini, avevano messo in evidenza i maggiori punti di incertezza non risolti che qui mi limito ad elencare: l’insoddisfacente ricostruzione dell’agguato di via Fani rispetto alla presenza di una motocicletta Honda, al numero e all’identità dei brigatisti (e qui la testimonianza di Rossi parla di due uomini dei Servizi Segreti arrivati a sostenere le Brigate Rosse e di quella motocicletta con i due agenti aveva parlato già un teste chiave del caso, l’ingegner Marini); la mancata estradizione di Alessio Casimirri, brigatista sicuramente presente in via Fani; 3) i dubbi sul luogo dell’assassinio di Moro; 4) le perplessità sulla documentazione trovata dodici anni dopo in via Montenevoso a Milano e sulla sua gestione politica.
Il presidente Pellegrino aveva allora sottolineato la sparizione di una documentazione fotografica dei luoghi della strage qualche minuto prima e subito dopo la sua esecuzione, il blocco delle linee telefoniche, l’identità precisa del sedicente ingegner Altobelli, il falso comunicato numero 7 delle BR conosciuto come “del lago della Duchessa”. I risultati dei più recenti studi che possediamo sui terrorismi e sul caso Moro (a cominciare da quelli di Sergio Flamigni, di Miquel Gotor, di Angelo Ventura, di Giorgio Galli e di chi scrive ), è che proprio il 14 settembre 1977, a qualche mese dal rapimento Moro, l’onorevole Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, di un governo che godeva dell’astensione condizionante dei comunisti, aveva varato, con una larghissima maggioranza, una legge di riforma dei servizi di sicurezza che, all’apparenza, liquidava finalmente il SID delle costanti “deviazioni” e istituiva il SISDE (servizio per le informazioni e la sicurezza democratica per la parte civile) e il SISMI (servizio per le informazioni e la sicurezza militare) coordinati dal CESIS (comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza).
Il bello era che un governo dotato di una larghissima maggioranza parlamentare, dopo una lotta feroce tra frazioni e correnti dei partiti coinvolti, a cominciare dal maggiore, quello democristiano) arrivò a nominare rispettivamente per i tre Servizi i generali Santovito, Grassini e Pelosi. Di tutti e tre si è potuto, subito dopo, accertare che facevano tutti e tre parte della lista coperta della P2 di Licio Gelli come ha potuto scrivere senza difficoltà De Lutiis nella sua ottima Storia dei Servizi Segreti Italiani (Roma, Editori Riuniti). Come a dire che, in quel caso, la quasi unanimità del parlamento aveva prodotto – non si sa per colpa di chi – il peggior risultato possibile.
Da questo punto di vista, possiamo dire che ricostruire finalmente in maniera compiuta la vita e la morte di Aldo Moro, per quanto ancora difficile, pur dopo commissioni di inchiesta e cinque processi già svolti, non appare un compito trascurabile nè di nessuna influenza sul futuro. Non riusciremo mai a cambiare questo paese nè a farlo diventare più moderno e civile se non capiremo quali forze – in Italia ed altrove – hanno voluto davvero la morte di Moro e l’hanno perseguita con grande tenacia a costo di un prezzo molto alto per bloccare il processo che l’uomo politico di Maglie aveva, con altri, messo in moto e cambiare (in peggio) il nostro futuro politico e culturale.