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Lotta alla mafia: l’efficienza delle leggi e le parole dell’antimafia

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Paolo Miggiano

Il mese di marzo per l’antimafia è un mese particolare, ricco di impegni e di appuntamenti importanti. Quest’anno, poi, ricorrendo il ventennale dell’uccisione di Don Giuseppe Diana (19 marzo), le iniziative sono state ancora più numerose, ricche di significato, ma anche occasione di dibattito e di confronto sui “buchi dell’antimafia e la legalità delle belle parole”, parafrasando il titolo di un coraggioso editoriale del direttore del quotidiano “Il Mattino” proprio del 19 marzo. Un editoriale che è stato considerato una vera e propria sferzata ad una certa politica ed a quelli che spesso vengono definiti, a torto o a ragione, professionisti dell’antimafia sociale. Un dibattito che per la verità aveva già preso piede nei mesi scorsi con un editoriale di Ernesto Galli della Loggia, comparso sul Corriere della Sera il 22 dicembre 2013, dove il noto editorialista, prendendo spunto da alcuni scandali scoppiati proprio intorno ad alcuni esponenti del mondo della cosiddetta antimafia sociale, oltre a considerare “carnevalate” iniziative come quella della “Nave della legalità” – organizzata a maggio dal Ministero dell’Istruzione sulla rotta Napoli Palermo – ed a porre l’accento critico sul modo sterile, illusorio ed ideologico di condurre in Italia la lotta sociale alla mafia, anteponeva l’enfasi dell’azione della legge. In buona sostanza, secondo Galli della Loggia, la maggiore fonte di cultura della legalità sarebbe posta proprio nell’azione rapida, efficace e massiccia della forza della legge. A questo infuocato editoriale rispondeva, come era ovvio che fosse, Nando Dalla Chiesa, uno dei più autorevoli, per cultura e storia personale, rappresentanti della cosiddetta antimafia sociale, il quale, a sua volta, sosteneva l’importanza delle iniziative criticate da Ernesto Galli della Loggia. Io non so chi dei due abbia ragione. A volte anche io, per la mia formazione alla legge (sono stato un poliziotto per 34 anni), mi interrogo se le tante iniziative per la legalità non servano più a noi che le organizziamo che a quelli verso i quali sarebbero dirette. Poi finisco per concludere che forse hanno davvero ragione entrambi i fronti, che uno sia complementare e sussidiario all’altro. Infatti, come si fa a dire che la forza della legge, rapida, efficace, e massiccia non sia una delle più auspicabili forme di contrasto del crimine? Ed allo stesso tempo non si può dire che le tante iniziative finalizzate a sensibilizzare soprattutto i giovani ai temi del rispetto delle regole e della conoscenza dei nomi e delle storie delle tante vittime innocenti non servano a nulla. Se così non fosse, che senso avrebbe avuto per me parlare a Milano al Teatro degli Arcimboldi con Rita Borsellino e Padre Bartolomeo Sorge, Lorenzo Clemente (marito di Silvia Ruotlo) e Veronica Montanino (figlia di una guardia giurata uccisa a Napoli nel tentativo di sottrargli la pistola di ordinanza)ad una platea di circa tremila ragazzi interessatissimi al problema delle mafie in Italia? Pur rimanendo nello stesso alveo, più pragmatica, invece, mi è parsa la polemica che è seguita all’editoriale del direttore del Mattino con il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, sulla questione della legislazione antimafia in Italia che gli stati esteri, secondo la presidente della Commissione antimafia, ci invidierebbero. Si tratta di una legislazione antimafia che non funziona, un pachiderma clientelare, che serve soprattutto a se stesso, dice il direttore Alessandro Barbano. Una legislazione, spiega, che consente di confiscare i patrimoni in assenza di un giudicato penale, attraverso un procedimento in Camera di Consiglio, cioè con ridotte garanzie di contraddittorio tra accusa e difesa, ha un senso solo in una situazione emergenziale, che dovrebbe impegnare lo Stato ad un maggiore rigore ed ad una maggiore efficienza. Troppi sono infatti gli immobili e le aziende che dopo essere stati confiscati, con grande impegno e dispendio di energie da parte delle forze dell’ordine e della magistratura, vengono abbandonati a loro stessi, dando il senso che era meglio quando a gestirli erano i mafiosi. In verità, seppur il procedimento di prevenzione per la confisca previsto dalla legislazione italiana contenga gli elementi di garanzia tra accusa e difesa, non si può dire che sia invidiata da paesi che hanno una diversa cultura giuridica dal nostro come quelli anglosassoni o come quelli dell’ex Patto di Varsavia. Sono culture giuridiche profondamente differenti dalla nostra, intrisa come è di un secolare cattolicesimo, dove molto spesso il peccato è stato confuso con il reato. Da noi in Italia è più facile accettare norme come quella della confisca dei beni fuori dalle regole del processo penale. In un paese anglosassone, dove permangono elementi del puritanesimo, il cittadino non comprenderebbe norme siffatte, come non sarebbero comprese, per altre ragioni, dai paesi dell’Est europeo, di recente usciti dalle forme di dittature che conosciamo. Non intendo unirmi al coro di chi sostiene che la confisca dei beni non sia un bene per il Paese ed un male per i mafiosi. Quella che costò la vita a Pio La Torre è stata una importante intuizione, per infliggere colpi durissimi alle mafie. Allo stesso modo la legislazione avanzata dall’Associazione Libera sul riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati ha costituito un importante passo avanti della legislazione. Entrambe però sembrano aver fatto il loro tempo e andrebbero adeguate. Qui mi limito semplicemente ad osservare che quella coraggiosamente sollevata dal direttore del Mattino è una questione seria sulla quale varrebbe la pena soffermarsi a riflettere, per correggere, nel rispetto delle garanzie costituzionali, ciò che nella nostra legislazione va corretto, a partire dalla riorganizzazione di una Agenzia deputata al tema della confisca che con soli trenta uomini è chiamata a gestire un immenso patrimonio sottratto ai mafiosi. Polemiche a parte, il mese di marzo, oltre ad essere un mese di dolore per i tanti familiari delle vittime, è stato davvero un mese importante, perché dopo l’anatema di Giovanni Paolo II contro i mafiosi, lanciato più di vent’anni fa dalla Valle dei Templi di Agrigento, un altro Papa, rompendo un lungo periodo di silenzio della Chiesa sulla lotta alle mafie, abbracciando i familiari di circa mille persone uccise dalle mafie in Italia, è tornato a chiedere ai mafiosi di convertirsi. Per favore cambiate vita, convertitevi, fermatevi di fare il male. Convertitevi per non finire all’inferno. Parole forti, anche se pronunciate, a differenza di quelle roboanti del suo predecessore, con grande tenerezza, mitezza e quasi sottovoce. Ora si tratta di far arrivare il messaggio del Papa ai preti di periferia, che dovrebbero seguire l’esempio indicato dalla fiction su Don Diana di non impartire ai mafiosi i sacramenti. Sarebbe, questo, un gesto davvero rivoluzionario, ma non so se si può chiedere tanto ai sacerdoti, perché un conto è predicare, altra cosa è l’azione concreta. Immaginate un prete calabrese che si rifiuti di celebrare il matrimonio ad uno ‘ndranghetista? Cosa accadrebbe a quel prete? Anche i preti sono uomini e come gli uomini hanno paura. Di Don Diana e di Don Puglisi non se ne vedono tanti in giro. Forse basterebbe chiedere ai preti di rifiutare le offerte in denaro dei mafiosi. Sarebbe l’inizio di una rivoluzione. Chiesa, Pontefice e familiari delle vittime innocenti a parte, mentre lo Stato non riempie i vuoti e sembra non dare risposte al problema, mentre noi tutti affrontiamo la questione con delle belle parole, con slogan, fiction televisive (belle o brutte che siano), con bandierine, magliette, cappellini, partite del cuore e più di una volta anche con qualche cospicuo finanziamento, la mafia fa i fatti. E li fa uccidendo, senza guardare in faccia a nessuno, neanche i bambini, dimostrando che la morte è l’unica sua legge, fuori da ogni codice di onore, fuori dalla menzogna che la mafia non uccide donne e bambini. Questa volta a Taranto è toccato ad un bambino di tre anni morire ammazzato. Era in auto con sua madre ed il suo compagno, che era l’obiettivo dei killer. Con lui in auto c’erano anche altri due bambini, scampati alla morte per miracolo. Stessa sorte era toccata, solo un mese fa, a Nicolino in Calabria in provincia di Cosenza. Forse in Europa la questione criminale è diversa, non è intrisa di violenza e del sangue delle stragi degli innocenti. Certamente il loro Pantheon delle vittime innocenti è meno colmo del nostro. Certamente, però, le nostre mafie, insieme a quelle internazionali si arricchiscono e, con i soldi degli affari della droga in particolare, condizionano l’economia. E questo dovrebbe far riflettere anche gli altri Stati. Non abbiamo competenza sugli affari normativi degli altri paesi, ma sarebbe ora che almeno in Italia la lotta alla mafia la si cominciasse a fare veramente, introducendo le norme che magistrati competenti come Raffaele Cantone e Giuseppe Pignatone hanno ampiamente indicato, superando tabù, finendola di affrontare la questione in maniera ideologica, demagogica e spesso anche monopolistica, ma soprattutto recidendo i rapporti con quei pezzi della politica che ancora sembra abbiano bisogno del consenso delle mafie.

Da isiciliani.it


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