Giuseppe S. assunto a tempo determinato dal Ministro Affari Esteri per una missione in Tunisia, nell’ambito di un programma di cooperazione, è stato licenziato con motivazione riferita ad addebiti di gravi comportamenti. Il Ministero ha inviato copia della lettera di licenziamento alla FAO e alle autorità tunisine, oltre a pubblicarla sul Bollettino della Cooperazione. Il Tribunale di Roma, al quale il lavoratore si è rivolto, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento ed ha condannato il Ministero a pagare le retribuzioni per il periodo dal licenziamento alla data di scadenza del contratto. Il Tribunale non ha accolto la domanda di risarcimento del danno all’immagine proposta da Giuseppe S. per la divulgazione della lettera di licenziamento. In grado di appello, la Corte di Roma ha condannato il Ministero anche al risarcimento del danno all’immagine, determinandolo in 50.000,00 euro. Il Ministero ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte romana per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 4854 del 28 febbraio 2014, Pres. Roselli, Rel. Manna) ha rigettato il ricorso. La sentenza impugnata – ha affermato la Corte – ha ravvisato il danno all’immagine non già quale effetto del mero licenziamento e/o della sua comunicazione alla FAO e alle autorità tunisine, bensì quale diretta conseguenza dell’invio ad essi della lettera di recesso (in cui a Giuseppe S. si addebitavano gravi comportamenti) e della sua diffusione anche attraverso il Bollettino della Cooperazione, senza che di ciò l’amministrazione abbia dato spiegazione alcuna. Il fatto determinativo di danno risiede in tali indebite diffusioni anche a prescindere dalla illegittimità del recesso. E se è vero che pure il danno all’immagine costituisce danno conseguenza e non danno in re ipsa, nondimeno esso – come tutti gli altri danni non patrimoniali – può ritenersi provato anche mediante presunzioni e/o massime di comune esperienza o fatti notori.
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