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Galleria delle Armi, 1944-2014. L’assurda tragedia ferroviaria di Balvano

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E’ la lucanologa che vi parla questa notte. Una notte di ferro, di acido e di veleno. Un fiume, un ponte, una trappola nella roccia e intorno buio e silenzio. Troppo silenzio e per troppo a lungo. Solo la certezza di un telegrafo che cinguetta il suo messaggio lampo: “treno partito da Balvano ore 00.50”. E’ il 3 marzo del 1944 e, a meno di due chilometri dalla stazione del piccolo comune della Basilicata, in una zona nota ai pastori come Contrada Grotta Palomba, si consuma la più grande tragedia ferroviaria della storia.
Il treno 8017 avrebbe dovuto percorrere altri sei chilometri per raggiungere la fermata successiva, “Bella-Muro” (dai nomi dei due comuni serviti dalla stessa stazione, Bella e Muro Lucano), ma resta intrappolato in una delle trentasette gallerie della linea Battipaglia-Potenza, la numero 20, la più lunga del percorso, poco meno di due chilometri, dal nome tristemente glorioso, “Galleria delle Armi”.
Per l’effetto combinato di monossido di carbonio, biossido di carbonio e carenza d’ossigeno, muoiono nel sonno o nella veglia, oltre 600 persone.

Tutto, in questa tragedia, rimanda ad un immaginario mitico di eroi misconosciuti che popolano una terra che commuove, ma ancora sfugge alla storiografia ufficiale. A partire dal primo macchinista, Espedito Senatore, vero uomo-treno, una immedesimazione pressoché assoluta con la propria locomotiva, la macchina pulsante, mito di progresso di Gucciniana memoria.
All’alba del 3 marzo, Espedito fu ritrovato al suo posto di comando, con il regolatore aperto, nel suo estremo tentativo di chiedere alla macchina il massimo sforzo. Aveva fatto appena in tempo a spingere Luigi Ronga, il suo fuochista, giù dal predellino, dicendogli di mettersi in salvo. Quando arrivarono i primi soccorsi, molte ore dopo, Ronga se ne stava accucciato e tramortito in una cunetta dove un miracoloso rigagnolo di acqua gli aveva salvato la vita.

Dire, come concluse l’analisi tecnica, che l’incidente fu causato dall’arresto del treno nel tunnel, è come il referto del medico quando parla di morte provocata da arresto cardiaco.
Le cause di questa terribile sciagura ignorata e rimossa, finita nel grande calderone di una guerra da cancellare al più presto, “tecnicamente” sono molteplici.
La Galleria delle Armi, umida, buia e scarsamente ventilata, è scavata sulla sagoma di un treno e lo avvolge come fa il fodero con la sua scimitarra. Tra le pareti della locomotiva e quelle delle galleria lo spazio di pochi centimetri.
La lunghezza eccezionale del convoglio, 479,30 metri, che finisce la sua lenta processione a un chilometro e mezzo dall’uscita del tunnel, arrendendosi per carico, massa trainata e pendenza del 14 per mille.
Uomini in servizio da molte ore, con la loro dose di gas tossici già incamerata nelle gallerie precedenti a causa della pessima qualità del carbone fornito dagli alleati, con resa termica di gran lunga inferiore rispetto a quello di provenienza tedesca, utilizzato fino al settembre del 1943.
Il peso delle merci trasportate e dell’elevato numero di persone salite a bordo, “più o meno regolarmente”, avrebbero dovuto imporre un diverso posizionamento delle due locomotive che, invece, viaggiavano accoppiate alla testa del treno 8017, esercitando la trazione in maniera sbilanciata.

Di fronte all’impossibilità di marciare in avanti, Espedito Senatore decise di retrocedere perché più vicino all’imbocco sud della Galleria. Il macchinista della seconda locomotiva, Matteo Gigliano, ritenne invece che c’era bisogno di un’ulteriore spinta. Il colpo di grazia lo diedero i frenatori, attenendosi all’articolo 12 comma 3, dell’ “Istruzione per il servizio del personale di scorta ai treni” che recita i “doveri circa l’uso dei freni”.
Sempre per l’obnubilamento generale e la paura che, arretrando, il treno potesse acquisire velocità, perdere aderenza e finire fuori controllo, i frenatori non sospettarono minimamente che la retromarcia fosse un atto intenzionale, nonché l’unica fuga possibile. Inchiodarono così, per sempre, il loro destino a quei binari.

Come se non bastasse, mentre la 480, costruita in Italia, aveva la guida a sinistra, la seconda locomotiva, la 476, era di fabbricazione austriaca, con il macchinista sul lato destro. Visibilità zero e possibilità di lanciarsi dei segnali non contemplata. Nella Galleria delle Armi, trasformatasi in una camera a gas, nessuno fu in grado di esercitare le sue funzioni ed Espedito e Matteo, svolsero l’ultimo eroico servizio della loro vita, sui finestrini opposti del treno, senza la possibilità di comunicare.

Nelle stazioni tutto tace e i responsabili si addormentano al caldo, qualcuno chiude un occhio. Al “partito” telegrafato dalla stazione di Balvano non seguirà mai la risposta “giunto”. La macabra scoperta del treno e del suo carico senza vita avverrà solo con le prime luci dell’alba, mentre il carico di responsabilità giace nelle zone telegrafiche mai esaminate, vere e proprie scatole nere degli incidenti ferroviari.

Diversi giorni dopo, sul “Times” di Londra, si parla di “guasto ad un treno nel centro-sud dell’Italia”, di “Disastro a sud est di Napoli” sulla Gazzetta del Mezzogiorno. La faccenda è liquidata e archiviata sommariamente anche da chi poteva arrivarci, se non altro, per affinità geografica e territoriale.
Pendolari della fame e della disperazione, della povertà e dall’abbandono, che dalla Campania e, in particolare, dalla provincia di Salerno tentavano, attraverso la ferrovia, di raggiungere la più felix Lucania, con le sue campagne fertili, le masserie isolate scampate al saccheggio, i maiali, i fagioli, le cicerchie, le uova, un po’ di ricotta e il grano, nell’unico baratto di sussistenza possibile, per chi a Napoli e dintorni non aveva più nulla da cercare, niente più niente da mangiare e, in cambio, poteva offrire solo un pugno di chiodi per le scarpe.
Più di una volta, il primo macchinista Espedito Senatore era dovuto intervenire a difesa dei suoi passeggeri, per evitare che le forze dell’ordine sequestrassero i generi alimentari faticosamente racimolati per sfamare i figli rimasti a casa.

Ho percorso molte volte quella tratta ferroviaria, su moderno Intercity o Regionale, e le fermate sono le stesse di quel 3 marzo di settant’anni fa: Picerno, Baragiano, Bella-Muro, Balvano-Ricigliano e poi Eboli, Battipaglia, Salerno. E’ un binario unico, da percorrere almeno una volta nella vita. Basta verificare che per la corsa prescelta, ci sia proprio il treno e non, come accade sempre più di frequente, il pullman del servizio sostitutivo. Purtroppo, ho visto filmati giornalistici che la bollano come una delle tratte peggiori d’Italia, per lentezza, ritardi, disservizi, carenze di varia natura. Persino Legambiente, nel suo dossier “Pendolaria 2013”, la colloca al decimo posto della classifica delle linee ferroviarie più disastrate. Bastava chiamarle: linee da preservare, valorizzare, a sottolinearne fascino e potenzialità.

Oggi, in una pubblicità televisiva, parlano di Balvano come di una grande fabbrica di merendine ma, per me e per molti, Balvano è uno dei paesi lucani più colpiti dal feroce sisma dell’Irpinia (a proposito di tempismo e organizzazione dei soccorsi).
Tante le gallerie che ti catapultano in una natura altrimenti nascosta e irragiungibile, a pochi centimetri dal fiume Platano che la insegue e dalle pareti a strapiombo, imponenti e brulle, di montagne e canyon.
Solo la ricostruzione del post terremoto dell’80 è riuscita a fare danni sul percorso, non lasciando traccia delle originali costruzioni liberty a due piani, sostituite brutalmente da anonimi e desolati fabbricati senza più la dignità di “stazione”, ma declassati al rango di “fermata”.

Ad un certo punto, esattamente una decina di anni fa, il nome Balvano è apparso sulla copertina di un libro di un avvocato romano, Gianluca Barneschi che, a sua volta, da almeno dieci anni, dopo aver letto notizia di questa strage silenziosa su una rivista dedicata ai treni, tentava di far luce sulla notte più nera del vapore ferroviario. Barneschi parlava anche di un cantautore texano, Terry Allen, che si era appassionato alla vicenda leggendo un giornale americano, e aveva composto la ballata “Galleria delle Armi” (anzi, “Galleria dele Armi”, per il classico errore di pronuncia). Ci feci subito una puntata di Radioscrigno. Esce oggi una nuova edizione del libro, “Balvano 1944. Indagine su un disastro rimosso”, frutto di ulteriori ricerche di Barneschi negli archivi di mezzo mondo, di acquisizione di documentazione rimasta a lungo secretata, di nuove interviste ai parenti delle vittime e ai pochi sopravvissuti. Un intero capitolo è dedicato, inoltre, a un clamoroso colpo di scena. Ne parlerà direttamente l’autore, sabato 8 marzo, in occasione della presentazione del libro al Museo Provinciale di Potenza.

http://imitiditimi.blogspot.it/2014/03/galleria-delle-armi-lassurda-tragedia.html?m=1


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