La tecnologia ha aggirato e slegato il bavaglio e ha liberato forte la voce della protesta, mentre la condanna ferma è arrivata da ogni parte, anche all’interno della Turchia. Ma forse proprio per questo la decisione del governo di Recep Tayyip Erdogan di bloccare i cinguettii di Twitter nel Paese, colpevoli di aver svelato e diffuso le scomode verità sulla corruzione del premier e del suo entourage, appare ancora più grave e intollerabile, e dimostra – una volta di più – la protervia di un regime che si arroga impunemente il diritto di violare le libertà fondamentali dei cittadini pur di soffocare critiche e opposizione e assicurare la sopravvivenza del proprio potere.
A pochi giorni dall’importante voto per le amministrative del 30 marzo e dopo qualche ora dalle minacce di oscurare Twitter pronunciate da Erdogan su un palco elettorale, il governo di Ankara ha oscurato la piattaforma del social network. Un atto di intolleranza compiuto, per combinazione, nella notte tra il 20 e il 21 marzo, cioè con l’arrivo del primavera, verso uno strumento di informazione e comunicazione divenuto il motore di sviluppo e il simbolo stesso delle rivolte dei popoli nelle cosiddette “primavere arabe” (che pure hanno avuto esiti ed evoluzioni differenti).
La Turchia, che ha un’età media dei cittadini molto giovane, è dallo scorso dicembre tra i primi dieci Paesi al mondo maggiori utilizzatori proprio di Twitter e vive uno sviluppo dell’economia in gran parte basato sul web, ha saputo subito aggirare le barriere tecnologiche e ha continuato a twittare, come atto di libertà e di sfida verso il divieto imposto dal governo. Mentre la rabbia e la protesta sono cresciute velocemente in tutta la comunità internazionale, a partire da voci autorevoli della Commissione europea, inducendo a prendere posizione perfino il presidente Abudallah Gul, cofondatore del partito filoislamico (Akp) del premier, che non a caso ha affidato proprio a un tweet la sua irritazione per il provvedimento.
È il metodo del premier Erdogan, come di ogni regime autoritario, reprimere la libertà di esprimere il proprio pensiero, di informare e di essere informati. Il divieto per Twitter è, per esempio, dal 2009 imposto dalla censura in Cina. Nello scorso febbraio è stato introdotto in Venezuela dal presidente Nicolàs Maduro. Ed esiste da sempre in Paesi antidemocratici come la Corea del Nord.
La Federazione europea dei giornalisti (Efj), insieme con quella internazionale (Ifj) e con tutti i sindacati nazionali, tra cui in prima fila la Fnsi, denunciano da molto tempo i metodi di Erdogan. In una dichiarazione congiunta, lanciata il 21 marzo, è stata condannata con forza “la mossa vergognosa del governo turco che mina chiaramente la libertà di espressione e il diritto di accesso alle informazioni da parte dei cittadini”. E l’atto del governo viene definito “una svolta antidemocratica che porta il Paese al livello dei regimi più oppressivi del mondo”.
Una protesta e un’accusa, pronunciate a nome di tutti i giornalisti europei e del mondo, che vanno a sommarsi e ad alimentare la campagna di Efj e Ifj contro la persecuzione subita dai colleghi turchi, da anni perseguitati, imprigionati, condannati anche al carcere a vita, con l’accusa di essere terroristi, solo per aver continuato, con coraggio, a esercitare il proprio dovere di osservare e narrare la realtà e i fatti della politica.
* Vicesegretario Fnsi e membro dello Steering Committee Efj