“Due o tre cose che so di lei” è il titolo di un famoso film di Jean-Luc Godard, che ben si potrebbe adattare alla vicenda europea. Le due o tre cose riguardano le politiche economiche liberiste, tra le quali spicca l’assurdo e ideologico fiscal compact; le linee istituzionali ingiallite e anchilosate; le incerte iniziative sui temi culturali e l’obsoleta impostazione sui media. Quest’ultima poco o niente appare nel dibattito pubblico. Eppure la scadenza elettorale per il nuovo parlamento, nonché per la commissione, è tanto vicina da richiedere qualche impegno rigoroso. E proprio le linee sul sistema delle comunicazioni meritano un drastico ripensamento, essendo state l’avamposto del fuoco fatuo della dittatura del mercato. L’approccio di Jacques Delors contenuto nel celebre “Libro bianco su crescita, competitività e occupazione” è del 1993 e parla per la prima volta di società dell’informazione. Con uno spirito democratico ed inclusivo, da cui –però- comincia a discostarsi il successivo rapporto affidato all’allora commissario Bangemann, per finire nell’epifania del liberismo mediatico con i successivi libri Verdi. L’assunto di partenza, inossidabile e surdeterminato dall’impostazione prevalente, era l’assoluta prevalenza dell’interesse della competizione (vera o presunta) tra le imprese rispetto alla partecipazione e al coinvolgimento. Finiva l’era –almeno formalmente- dei grandi monopoli di stato e la strada delle liberalizzazioni poteva coniugarsi alla costruzione di una cittadinanza europea matura, cui le più veloci e moderne tecniche potevano offrire una straordinaria piattaforma di crescita culturale. No. Si liberalizzava il mercato, mentre si omologava la visione del mondo. Numerose direttive risultavano assai squilibrate: il mezzo ha coperto il messaggio. Povero McLuhan. La crisi finanziaria seppellì la breve stagione delle dot.com e le concentrazioni private soppiantarono o ridimensionarono i poli pubblici, mai davvero ricollocati nella sfera dei beni comuni. Tanto è vero che solo alla fine della legislatura continentale si è parlato di “Europa creativa”, mentre i pur numerosi progetti produttivi hanno racimolato risorse residuali, limitatissime. La sbornia liberista ha fatto danni tremendi e non per caso la tanto sbandierata Agenda digitale stenta. In controtendenza la velocissima evoluzione della rete, che ha bisogno –però- di un quadro di riferimento adeguato.
Ecco, è bene immaginare una vera e propria svolta, che abbia il coraggio di considerare lo sviluppo digitale un’occasione per la crescita dei diritti e non per ulteriori divisioni tra chi sa e chi non sa, chi ha e chi non ha. L’Europa si gioca qui un’occasione storica. A patto che: si scelga la strada della “net neutrality”, vale a dire l’accesso aperto e non discriminatorio: la banda larga e quella ultralarga devono essere parte integrante dell’identità delle persone; che si opti per la linea del software aperto e non proprietario, per svincolarsi dai nuovi tycoon; che si ri-costruisca un’opzione autonoma e indipendente sulla tutela moderna della privacy, arginando il “sesto potere” della sorveglianza invadente e autoritaria; che si adotti finalmente un indirizzo evolutivo e illuminato sulla spinosa vicenda del copyright, territorio di scontro tra fondamentalismi arretrati.
Inoltre, serve una nuova Carta delle libertà, visto l’incessante aumento delle censure, delle repressioni, persino degli assassini dei lavoratori dell’informazione. Il discorso potrebbe proseguire, ma è fondamentale esprimersi. Nessuna altra Europa nascerà senza una diversa politica dell’età cross- mediale, che dia il primato ai contenuti rispetto ai contenitori. Alla persona digitale.
* da “Il Manifesto”