“Un dizionario hacker” – di Arturo Di Corinto

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Open source, open content, open access, open data, open government. La pubblicistica e la retorica politica si sono impadronite dell’aggettivo open per piegarlo sovente a interpretazioni di comodo senza rispetto per le sue origini e il suo senso profondo, che è quello di garantire la cooperazione tra gli esseri umani, incentivandone creatività, cultura e conoscenza.
La sfida per l’openness, l’apertura dei dati e delle informazioni, contro forme di appropriazione privata di quanto prodotto in maniera etica, sociale e cooperativa dagli uomini e dalle donne, coincide ai giorni nostri con la battaglia per il software libero e la liberazione dei dati all’interno delle culture hacker e dei movimenti per la pubblicità del sapere contro un diritto d’autore considerato antiquato e totalitario.

Gli hacker, i virtuosi del software, hanno capito prima di altri il potenziale liberatorio ed emancipativo delle tecnologie dell’informazione, dei computer e del digitale, intesi come strumenti per capire meglio il mondo ed essere più liberi di fare e di scegliere, grazie alla possibilità di socializzare dati, informazioni e conoscenze. Non era un caso: provenivano quasi tutti dalla Repubblica della Scienza per antonomasia, le Università.
Inoltre gli hacker, gli eroi della rivoluzione informatica, sono da sempre considerati tali per la capacità di “forzare i codici” e aumentare i gradi di libertà di un sistema dato, aprendolo appunto a rielaborazioni e interpretazioni, espressione tipica della creatività umana. È proprio all’interno delle culture hacker e dei movimenti per il free speech che fa la sua comparsa la pratica della scrittura cooperativa del software e della sua condivisione contro i tentativi di recintarne le possibilità fatti da una progressiva chiusura commerciale. Sarà oggetto di uno scontro che dura ancora oggi.

Nel 1984, trent’anni fa, il movimento per il software libero produrrà il sistema operativo Gnu e una serie di applicativi assai importanti per il funzionamento dei computer prima di congiungersi con il kernel Linux di Linus Torvalds. Insieme daranno origine alla famiglia di software noti come Linux, secondo una dicitura considerata imprecisa. Parliamo di software e sistemi operativi che hanno insidiato il monopolio del software commerciale più diffuso e che oggi sono alla base delle maggiori applicazioni tecnologiche che regolano i nostri rapporti sociali, dai server apache ai telefonini Android. Il motivo è presto detto: il software di questo tipo, da allora denominato libero, fosse esso free software oppure, in seguito, open source software, era caratterizzato da licenze di utilizzo, il copyright, liberali e solidaristiche, pur essendo da subito disponibili per un uso commerciale.

Questa storia non comincia dal nulla. Gli hacker prima di Stallman avevano contribuito a scrivere videogiochi e software musicali, ma anche protocolli di comunicazione tra computer, quelli che ancora fanno funzionare Internet, senza porsi neppure il problema che qualcuno ci potesse mettere un marchio e una licenza, e appropriarsene. Ma dopo la lettera di Gates agli hobbisti nel 1975, le licenze Gnu/GPL servivano proprio a questo, ad appoggiarsi alle leggi internazionali per tutelare l’autorialità del software e dei relativi manuali, e allo stesso tempo garantirne il più ampio utilizzo e la più ampia diffusione, anche a fini commerciali, senza farlo pagare.

Era nato il copyleft. Frutto di un gioco linguistico dove left significa “lasciare”, ma anche “sinistra”, in opposizioni a copyright che significa “diritto”, ma anche “destra”.
Senza il software libero, le licenze GPL e il copyleft, non esisterebbero oggi né le creative commons nè Wikipedia, non esisterebbero gli open content e neppure Plos Medicine, non esisterebbero gli open archives o i Mit open courseware. E non staremmo qui a parlarne.

Tra i numerosi attentati alla neutralità della rete, il principio base di Internet, che ne garantisce apertura e innovazione, il giro di vite sul copyright a livello mondiale con le leggi Sopa, Pipa, Acta, Scotus, TTPA, l’affermazione del framework degli open data e le timide emergenze di open government, sono molti gli eventi da citare per dire che la sfida per l’openness non è finita.

Nel 1984 nasce il progetto Gnu, poco dopo la League for programming freedom, la Free Software Foundation. Nel 1991, il www di Berners Lee facilita l’accesso e lo scambio di risorse informatiche su Internet e il kernel Linux viene inserito nel progetto Gnu. Nel 2001 Lawrence Lessig a Stanford elabora il framework concettuale delle creative commons, un set di licenze libere per materiali creativi che rimettono ai singoli autori la gestione dei diritti delle proprie opere con la facoltà di chiarire ex ante i molti usi possibili delle loro creazioni superando la logica del full copyright, cioè di tutti i diritti riservati. Nasce il concetto dei “Some rights reserved”. Creative Commons oggi usato dall’archivio della BBC, da Al Jazeera e dalla Stampa di Torino è il secondo tipo di licenze dopo la Gnu/Gfdl a proteggere i contenuti di Wikipedia e dei progetti associati.

Nel 2001 assistiamo alla Budapest Open Access Initiative e nel 2003 alla Berlin Declaration che apriranno la strada al self archiving e alle pubblicazioni accademiche ad accesso aperto.

A celebrare questa ansia di libertà contro le pastoie del copyright e in aperta polemica con le lobby degli intermediari che allungano la filiera di diffusione dei prodotti culturali aumentandone a dismisura i costi e creando noti fenomeni di lock in tecnologico e scientifico, oggi ci sono il Linux Day, il document freedom day e una serie di eventi mondiali dove viene celebrata la viralità delle formule di liberazione del sapere incorporato nei software e nei prodotti culturali. L’affermarsi degli open data, i dati aperti, in analogia con il software open source, ci ha traghettati ai primi timidi esperimenti di open government che hanno rimpiazzato nel tempo, almeno a livello linguistico e pubblicistico la definizione, troppo rivoluzionaria, di e-democracy. Non basta, l’industria della proprietà intellettuale è in agguato, la politica è afasica e l’economia del web non tira abbastanza. Ma le culture hacker, comunque si definiscano, non si danno per vinte.

Questo libro è un tentativo diverso, modesto nella portata e non definitivo, di raccontare questa storia.

“UN DIZIONARIO HACKER” – di Arturo Di Corinto
Editore Manni 2014
Collana Sollevazioni
212 p., brossura

EAN 9788862665162 – € 14,00


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