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Spose bambine, un velo da stracciare

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Bologna, 28 febbraio, un convegno internazionale su un fenomeno che riguarda anche l’Italia: i matrimoni imposti alle donne.

Di Chiara Luti

È stata rinviata di un mese, lo scorso 3 febbraio, l’esecuzione di Farzaneh Moradi, la “sposa bambina” condannata a morte in Iran con l’accusa di aver ucciso il marito, che era stata obbligata a sposare a 15 anni. Quella di Farzaneh è solo una delle disperate vicende nel mare di violenza, intimidazioni e costrizioni – fisiche e psicologiche – cui le donne sono sottoposte in ogni parte del mondo. Mentre a livello internazionale si levano alti gli appelli per salvare la vita di Farzaneh, in Italia si comincia finalmente a guardare al fenomeno dei matrimoni forzati non come ad una “aberrazione” lontana, appartenente a luoghi e culture distanti, ma come una realtà diffusa anche nel nostro territorio, una pratica che si svolge tra le pieghe di una supposta cultura sociale diffusa dei diritti e della libera scelta.

In realtà, come rivela l’indagine condotta in questi anni sul territorio dell’Emilia Romagna dall’associazione Trama di Terre è emerso il dato di bambine, adolescenti e giovani donne immigrate, spesso nate e cresciute nel nostro Paese, le cui famiglie scelgono di sottoporle a matrimoni imposti. A volte questi casi finiscono alla ribalta della cronaca nera, quando le giovani che vogliono sottrarsi vengono punite con violenze fisiche, persino uccise, oppure tentano il suicidio; più spesso semplicemente spariscono da scuola o dall’Italia, senza che la loro richiesta di aiuto sia stata accolta o senza aver trovato il coraggio di chiedere aiuto. Ma dal lavoro di Trama di Terre, che dal 2011 collabora con ActionAid ad un progetto di indagine approfondita sul fenomeno e ad attività di aiuto e prevenzione, emergono anche indicazioni preziose su buone pratiche e politiche di contrasto ai matrimoni forzati: la protezione e l’accoglienza delle ragazze a rischio o in fuga, e l’avvio di percorsi formativi e informativi rivolti a operatori, avvocati, giudici, istituzioni sono due passaggi ineludibili nell’affermazione “in positivo” del diritto di scegliere per le ragazze se, come, quando, con chi sposarsi.

Il convegno “Contrasto ai matrimoni forzati nella provincia di Bologna: agire sul locale con una prospettiva internazionale”, che ActionAid e Trama di Terre – con il contributo di Fondazione Vodafone – organizzano a Bologna il prossimo 28 febbraio vuole scardinare un’idea dura a morire: quella che si tratti in fondo di “affari di famiglia”, e per di più di famiglie “straniere”, di pochi e sporadici casi. Mentre in altri paesi come la Gran Bretagna o la Svizzera sono state introdotte specifiche leggi di contrasto ed avviati programmi di intervento, in Italia è ancora necessario trovare la sensibilità giusta del singolo insegnante, operatore sociale, che prenda in carico il caso “a rischio”. Non esistono linee guida che contemplino i matrimoni forzati, e a fare o meno la differenza è a tutt’oggi la discrezionalità. Il paradosso è che a fronte di una tradizione come la nostra che vede ancora nell’istituto del matrimonio il paradigma della “famiglia”, non esiste ancora una forma istituzionale di contrasto all’imposizione del matrimonio, con tutto il portato simbolico – oltre che di ricaduta concreta, viva nel corpo e nelle relazioni delle donne che ne sono vittime – che ciò comporta.

A Farzaneh, la “sposa bambina”, va salvata la vita: subito. Più vicino alle nostre case, nei nostri quartieri, vanno tracciati percorsi e avviate relazioni sociali e istituzionali perché altre Farzaneh, Hina, Nura – e magari ragazze migranti di “seconda generazione” dai nomi italiani – possano con le mani stracciare il velo che incombe sul proprio capo, e scegliere liberamente i propri amori, la propria vita.

Da giuliagiornaliste.it


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