Riforma. Chi non vuole la riforma? A parole sono tutti d’accordo. Ma quando arriva il momento di fare scelte coraggiose… A cinquant’anni dalla Legge istituiva dell’Ordine (pensata quando c’era un solo canale tv, non esistevano Internet e i giornali locali) il cambiamento non può essere rinviato. Nè lasciato alla nostra <casta>, ai giochini di corrente o ai conservatori (del posto) a tutti i costi. Si continua a ballare su un Titanic che affonda. In attesa di una (prevedibile) onda della politica che spazzerà via tutto. Insieme ai privilegi e al vecchio, anche quello di buono che c’era in quella legge, la difesa dei diritti del lettore e della deontologia.
Quante volte ci siamo detti “O si fa la riforma o si muore”? Ci abbiamo provato, insieme a Carlo Verna e ad altri quattro “saggi” di buona volontà, a mettere a punto un testo che raccogliesse il consenso della maggioranza del Consiglio nazionale. Pochi punti in qualche modo rivoluzionari, che chiediamo invano da anni. La riforma dell’accesso, togliendo il potere di ricatto agli editori sulle assunzioni. La drastica diminuzione dei consiglieri nazionali (Dovranno essere tra 30 e 50, meno di un terzo di quanti sono oggi, consentendo risparmi, meno burocrazie e magari una riduzione della quota annuale per i colleghi) e un nuovo rapporto di 3 a 2 tra professionisti e pubblicisti (che oggi in Consiglio sono in maggioranza). L’esame obbligatorio per i pubblicisti, garanzie per chi svolge a tempo pieno questo mestiere di poter accedere all’esame, un bollino blu per distinguere uffici stampa e agenzie di fotogiornalismo che utilizzano giornalisti e non abusivi. Controlli più severi per quelli che giornalisti lo sono soltanto di nome e non di fatto. E poi il <no> ai doppi incarichi, un limite ai mandati.
Insomma, una buona riforma. Forse non la migliore in assoluto, ma senz’altro la migliore riforma possibile e condivisa. Arrivato in aula il testo è stato subito spolpato da emendamenti furbeschi e riduttivi, sostenuti da un gruppo di pubblicisti (Campania, Piemonte e Lombardia le loro roccheforti) che evidentemente ha paura della riforma. Non ha aiutato la presentazione a sorpresa, a poche ore dalla discussione in aula, di una proposta radicalmente alternativa firmata da alcuni esponenti di Liberiamo l’Informazione. Un’idea buona, quella di Carlo Bonini di mirare in prospettiva a un albo unico, trasformata però in un pacchetto alternativo che teorizzava l’eliminazione dei pubblicisti e altro risultato non poteva ottenere se non quello di mandare tutto all’aria. Noi stessi non abbiamo alla fine votato la nostra proposta ormai <svuotata>.
Di chi la colpa? Il presidente Iacopino, con cui abbiamo su molti punti idee diverse, non ha ostacolato questo percorso. Anzi. Ma ha perduto alla fine il controllo di una parte della sua maggioranza.
Alla fine ci ritroviamo punto e a capo. L’errore più grande sarebbe quello di consegnare alla politica la nostra incapacità di decidere e una cambiale in bianco. Perché non ci sono soltanto i “parlamentari amici” che vogliono la riforma più bella del mondo. Ma anche quelli che l’Ordine e i giornalisti li abolirebbero in due minuti. Dunque, mettiamo a raccolta le energie migliori e sane. E proviamo _ ma il tempo è davvero scaduto _ a formulare un’ipotesi avanzata, che supero pregiudizi e ideologìe e raccolga le idee migliori emerse negli ultimi tempi. E possa raggiungere l’obiettivo che ci proponiamo: difendere i veri giornalisti che non hanno accesso ai diritti e spesso sono sfruttati e ricattati, e liberarci dei troppi “giornalisti” che hanno il tesserino ma non svolgono questa professione a tempo pieno. Dando dignità al pubblicismo, tradizione italiana, che è però cosa diversa. E tutelando il diritto dei lettori a essere informati.
Tutto il resto sono tattiche e piccole strategie di bottega che hanno stancato non soltanto i cittadini, ma anche la maggioranza (sana) della nostra categoria.