Reggendosi –per parametri pecuniari ed effimeri- sulla mitologia dello star system, spesso accade che la pubblicistica di (e su) Hollywood ricorra alla dinamica ‘stellare’ per imbastire allegorie, un pò bolse, sulla vita di chi abita quel tremendo, attraente, inappellabile circo mediatico. Pertanto, se ‘è nata una stella’, essa potrà essere durevole ‘stella fissa del firmamento’ immaginario ovvero ‘stella in declino’ di carriere spezzate o sprezzanti le regole non scritte della liberista, mercantile repubblica di Bevery Hills. Attenendoci dunque, per comodità di metafora, alla strampalata astronomia di quei luoghi, è immediato associare la recente, immatura scomparsa di Philip Saymour Hoffman a quella( ben più solida, vagante, di grana composita) di un immenso meteorite che, scaraventandosi dall’universo contro il pianeta non ha mirato sul deserto di Gobi o sulla testa di qualche sventurato passeggero del mondo. No: Philip,il meteorite triste, multiforme, paciosamente misterioso (con se stesso prima che con gli altri) ha preferito schiantarsi su sul proprio corpo (overdose? suicidio? sbronza andata a male?La polizia di New York indaga e arresta), dentro un discreto, ben arredato monolocale di Manatthan, escludendo dalla sua morte (predeterminata?) familiari ed amici: per un gesto (o un azzardo estremo) che, se molto intriga il cronista di gossip, nulla interferisce su chi scrive di lui-adesso- ripercorrendone la carriera artistica. Ovvero tutti i ‘tesori’ intarsiati in piccoli e grandi ruoli, che questo massiccio, gentile uomo di 46 anni ha saputo dispiegare nei suoi travagliati, a volte misconosciuti trent’anni di carriera, riscattati però (nel 2005) dalla conquista (ultrameritata) del Premio Oscar -migliore attore protagonista- di “Truman Capote- A sangue freddo” (diretto da Bennet Miller), liberamente ispirato all’ ostinato,certosino scoop giornalistico che portò alla notorietà (Philip come Truman) il testardo (e devoto anch’egli della ‘cupio dissolvi’) autore di “Colazione da Tiffany” e “Altre voci,altre stanze’.
Nonostante le sembianze dell’ outsider o del caratterista, Seymour Hoffman era inoltre dotato di una naturale propensione all’autorevolezza scenica e da grande schermo. Se a teatro (intrapreso a quindici anni, fondando una sua compagnia) aveva conquistato Broadway con raffinate, corpose interpretazioni di Shakespeare, (“Antonio e Cleopatra”), ‘O Neeil (“Strano interlidio”) e Cechov (in un “Giardino dei ciliegi” oelogiato dalla critica americana), al cinema dovette faticare molto per evitare, nonostante l’Oscar, di essere confinato in ruoli scomodi e marginali. Come? Applicando su se stesso,e con autodisciplina esemplare, il vecchio sermone secondo cui ‘non esistono piccoli ruoli, ma piccoli attori’. Iniziando proprio dalla conoscenza, dall’approfondimento dell’incandescente mestiere cui s’era avviato.
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Nato nella città di Fairport, figlio di una donna-magistrato e di un manager industriale, Philip si laurea (nel 1989) presso la Tisch School of the Arts University , debuttando due anni dopo, per il piccolo schermo, in un episodio della serie “Law & Order – I due volti della giustizia”. Essendo poi del 1991 l’esordio hollywoodiano nella comedia (insipida) “Triple Bogey on a Par Five Hole”, rinfrancandosi l’anno seguente a fianco di un irresistibile, ostinato Al Pacino, emulo di Vittorio Gassman nell’ottimo remake di “Profumo di donna”, diretto da Martin Brest, recitando il ruolo (scomodo ma sapido) del ‘figlio di papà’ George Willis Jr.
Del 1996 è l’incontro (e la proficua collaborazione) con Paul Thomas Anderson nel ‘pastiche metalinguistico’ (Morandini) in forma di thriller a basso costo, dal titolo “Sydney”. Segnando però quel Il film l’inizio di una fruttuosa collaborazione con il filmaker californiano, per il quale Saymour Hoffman interpreta “Boogie Nights – L’altra Hollywood”, l’indimenticabile, apocalittico “Magnolia” e “Ubriaco d’amore” -commedia asimmetrica, autistica, densa di virtuosismi grotteschi e stralunati. Qui surclassando, e non fu poca cosa, l’allora divo televisivo Adam Sandler (che ne era protagonista). Sempre innamorato dei suoi iniziali ‘tavolacci teatrali’ Philip diventa membro e co-direttore artistico della rinomata Labyrinth Theater Company, per la quale cura (con esiti,pare,eccellenti) la regia di molti spettacoli desunti da opere classiche, contemporanee e infine inedite.
Nel 2007 il cinema lo ‘richiama’ ad accudire un malandato papà in papà in “La famiglia Savage”; quindi ad organizzare una spregevole rapina (ai genitori) in “Onora il padre e la madre”, a cimentarsi da affaticato agente della CIA in” La guerra di Charlie Wilson”- prova che gli frutta una nomination agli Academy Awards come Best Actor in a Supporting Role. Direttore teatrale per Charlie Kaufman in “Synecdoche, New York”, l’attore sarà poi un ambiguo, ‘impenetrabile’, benevolo sacerdote accusato di molestie sessuali in “Il dubbio”, opera teatrale importata anche in Italia, con protagonista Stefano Accorsi.
Nel 2009 Philip torna ai ruoli ‘vitali’ e un po’ dannati che tanto lo intrigavano, essendo ‘conte e capitano’ di una delle navi più bizzarre e scapestrate mai viste navigare al cinema, per “I Love Radio Rock”. Nel 2011 affianca George Clooney nel discusso e discutibile “Le idi di marzo”, presentato alla Mostra di Venezia, cimentandosi – nell’anno successivo- in un ardimentoso confronto tra ‘il bello e lo spregiudicato’ nell’ambizioso ma irrisolto “L’arte di vincere”, a fianco di Brad Pitt. Nuovamente alla Mostra del Cinema nel 2012, Saymour Hoffman è presente, da co-protagonista, e ancora diretto da Paul Thomas Anderson, in “The Master”, ispirato alla storia ‘vera o falsa’ (comunque incresciosa) della Scientology di Ron Hubbard, aggiudicandosi (a pieno merito) la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, ex aequo con Joaquin Phoenix.
Per qualche amico che ieri interloquiva con “Tu che di cinema ne sai qualcosa, perché questo attore piaceva tanto?”, m’è venuta (da dove?) una risposta secca e istintiva “Perché sfondava lo schermo come Orson Welles e dominava la platea come Lawrence Olivier”. Un ‘mastino’ e un ‘sopraffino’ (entrambi ‘esteti’ dell’espressione attorale), di cui Philip resta l’unico e unificante erede.