Scritta nel 1890, undici anni dopo la sovversiva “Casa di bambola”-e ad appena due dalla romantico-visionaria “Donna del mare” (cui Elisabetta Pozzi offrì, non tanto tempo fa, una memorabile ‘interiorizzazione’ ai bordi della lucida follia), “Hedda Gabler” sta a completamento della trilogia ‘al femminile’ maturata dal severo, multiforme autore norvegese. Ritrattista inossidabile di ambienti e personaggi dominati dalle convenzioni borghesi e dalla rispettabilità di un’araldica familiare, resa cupa,opprimente, invalicabile dalla ‘lunga notte’ del freddo artico. La quale, se raggela i comportamenti, le ‘buone maniere’ dell’interloquire tra ‘pari grado’, sembra vivificare, accendere, precipitare agli inferi l’incontenibile ardore delle rivalse, delle passioni sopite, della carnalità che ‘brama’ sotto le coltri e gli ingombranti abiti d’epoca. Avendo-le donne di Ibsen- un precipuo denominatore comune consistente –mi pare- in quell’ésprit errabondo e allo stesso tempo claustrale\claustrofobico che è la ‘loro rispettabilità e condanna’ all’interno di una società ad eminente vocazione (omo?) maschilista. A tal punto che(al di là della forma, delle riverenze, dei baciamano militareschi) il tempo libero, i ‘casini di caccia’, gli stessi bagordi dell’alta borghesia nordica affogavano in ambiti (ed ambienti) ove era ‘disdicevole’, inconcepibile ammettere qualsiasi donna, nemmeno se prezzolata. Come dire? Uomini che amavano (che amano?) starsene tra uomini, anche per consumare i loro debiti\crediti di odio,denaro,affari ed affanni in sospeso.
Hedda, di suo, è creatura algida, supponente – comunque consapevole sia del proprio fascino sia della fragilità d’ogni sua intima frustrazione. Consistente –in sintesi- nella sua incapacità di vivere la propria femminilità in misure (posture, modalità) diverse da quel che genera la sua nevrosi, il suo antesignano ‘male di vivere’ abbacinato da vacuo, indefinito ‘successo’ e rapito in un vortice di egoismo, rivalità, deleteria intransigenza. Giovane moglie di uno studioso di scienze naturali, figlia di un insigne e decorato generale (‘onore della patria’), Hedda vive con insofferenza, frammista ad ‘assenze’ depressive, un simulacro di tranquillità familiare presto turbato dal ritorno di un ex spasimante, antagonista del marito anche in ambito professionale. L’ostentata supponenza della donna, gelosa della vivida felicità di una ragazza che le è rivale in amore, indurrà il ‘troppo amato’ al suicidio. E la stessa Hedda ad un gesto di emulazione, non appena si sarà resa conto che anche il pacato marito ha intrapreso un (realmente) amichevole rapporto con ‘l’atra’.
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Trama contorta ed esasperata, probabilmente ai limiti del feuilleton se il maestro concertatore non fosse il possente drammaturgo, tuttavia ‘pretesto’ per un raschiamento dell’anima (para-freudiano) che ‘seziona’ gli esseri umani come cavie da laboratorio. Ragion per cui l’opera, al suo debutto in patria, irritò gran parte del pubblico non solo per la sgradevolezza del tema ma perché riduceva il suo angolo visuale ( “quasi a colpa degli alti fiordi di quella terra”) ad una sorta di patologico bovarismo “che si irradia dalla protagonista agli altri personaggi, tutti in cerca di qualcosa di inafferrabile”.
Negli anni ruggenti del teatro d’avanguardia (specie in ambito di avanguardia romana anni 70) si tentarono più letture ed accostamenti (in chiave femminista) tra il personaggio di Hedda e quello della Signorina Giulia (frutto ‘avvelenato’ dello svedese Strindberg) , quasi ad esaltazione del ruolo della donna perdente tra due opere comparabili ma non direi assimilabili : passando dal dramma collettivo dell’una alla ‘semi clandestinità’ della seconda- esemplare del teatro da camera, relegato alle idiosincrasie (non accessorie) del conflitto di classe, del tutto assente nella drammaturgia (naturalista, romantica, persino mistico-favolistica) dello scrittore norvegese.
Di suo, la stringata, energica regia di Antonio Calenda ripercorre in modo scabro ed essenziale l’avventura umana di Hedda (ingabbiata in scarno, atro disegno scenografico), lasciando ad Ibsen il ruolo (inusitato?) di ‘testimone d’epoca’ in un testo intriso di cristallizzata capacità didattica, richiamata e declamata dall’invadenza scenica dei due ricercatori, aspiranti accademici. E soprattutto dall’obliquo, indecifrabile personaggio del giudice-parassita, anch’egli infatuato della bella protagonista (cui si rapporta come un bracconiere) – mentre tutti dissertano di cultura, morale e cerebrale nullismo. Sinchè, come nell’”Anitra selvatica” dell’evasione impossibile, l’unico colpo d’ala concesso alla ‘fuga’, al rifiuto globale non resterà che l’auto-dissolvimento marcatamente evidenziato (dalla regia) atto ‘paonazzo e isterico’. Quindi privato di ogni eroismo e umano riscatto
“All’appello mancano taglio, visione e poetica”- ha commentato qualcuno. Ma non credo che qualcosa di lirico esistesse, legittimamente, nelle più ‘entomologhe’ ispirazioni\intenzioni di Ibsen- e dunque di Calenda e della sinuosa Manuela Mandracchia, aderente al ruolo della protagonista come ‘vichinga da mitologia scandinava’ – per una stramba, ammirevole operazione di mimetico distacco. Da non intendersi quale ossimoro, ma sincera (brechtiana) prova di ammirazione.
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“Hedda Gabler” di Henrik Ibsen. Regia di Antonio Calenda. Con Manuela Mandracchia, Luciano Roman, Jacopo Venturiero, Simonetta Cartia, Federica Rosellini, Massimo Nicolini, Laura Piazza, scene Pier Paolo Bisleri, costumi Carla Teti, luci Nino Napoletano, musiche Germano Mazzocchetti. Prod. Tearo Stabile del Friuli Venezia Giulia. Roma, Teatro Quirino. Brescia, Teatro Sociale