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L’approccio interdisciplinare per il conseguimento di obiettivi, tecnici e sociali, sta diventando una regola necessaria

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Il Magistrato deve reimparare a formulare le domande, i quesiti, e il CTU, consulente tecnico d’ufficio,  deve reimparare a fornire le risposte

di  Alessio Russo

ROMA – La nostra società moderna, ormai da tutti definita post industriale o, da molti, della comunicazione, si basa su relazioni sempre più complesse tra gli individui. Rispetto ad un passato, anche recente, le semplici relazioni piramidali, che disegnavano i processi di delega, si sono andate via via complicando. Ogni attore della società moderna non ha più soltanto due relazioni con il resto della collettività, e cioè quella con cui assumeva una responsabilità funzionale da un altro e quella con cui distribuiva ad altri parte di tale responsabilità. L’elevato grado di scolarizzazione, raggiunto almeno nei paesi che hanno vissuto l’era industriale, insieme con la larga e tempestiva diffusione di informazioni, veicolate attraverso i media tecnologici, hanno moltiplicato le relazioni tra individui, rendendo assai più complesso il tessuto sociale. Oggi tutti comunicano con tutti, tutti hanno relazioni con tutti e in tutti i momenti.

Anche la dimensione dei problemi da affrontare, come pure la loro complessità, sono cresciute in maniera imprevedibile solo alcuni decenni addietro. La, per molti versi, tranquilla società industriale, dove le azioni potevano essere programmate nel lungo periodo sulla catena di montaggio, reale (per i prodotti) o virtuale (per i servizi) che fosse, è ormai alle nostre spalle. E’ alle nostre spalle proprio come lo fu la ancora più tranquilla, e tranquillizzante, società contadina per i nostri nonni.

L’approccio interdisciplinare per il conseguimento di obiettivi, tecnici e sociali, sta diventando una regola necessaria. E quest’approccio non vuol dire sintesi piramidale di diverse conoscenze. Vuol dire invece interazione continua tra le varie discipline, cooperazione piuttosto che semplice collaborazione tra gli attori di un processo qualsiasi, giudiziario, produttivo o decisionale. Attraverso tale interazione ognuno degli attori allarga la propria cultura, i confini disciplinari si sfumano e si fondono.

Il processo, quello civile in particolare ma anche quello penale, non può sfuggire a questa trasformazione, perché è circoscritto dalla stessa società che vede crescere la propria complessità. Il Magistrato e il CTU, che insieme con le parti convenute, sono gli attori principali di tale processo, devono ripensare i rispettivi ruoli in un ottica interdisciplinare, per raggiungere l’obiettivo della formazione del giudizio. La semplice relazione piramidale, legata alla formulazione del quesito e alla ricerca di una risposta, non basta più. Di fronte a una società intrinsecamente complessa e a problemi oggettivamente complessi, l’aspettativa di giustizia non può più essere soddisfatta in questo modo.

Attraverso le tecniche dell’interazione, culturale e non solo funzionale, il Magistrato deve reimparare a formulare le domande, i quesiti, e il CTU deve reimparare a fornire le risposte. Ognuno di questi due attori del processo deve liberarsi dalla gabbia dei ruoli e delle responsabilità troppo nette e distinte, almeno per quanto riguarda il proprio ambito culturale e professionale. Ognuno deve coltivare una crescita di consapevolezza dell’intero processo.

Se la domanda è incompleta, se non esprime chiaramente anche il fine per cui è stata formulata e la scala di valori che permetterà la formazione del giudizio, la risposta non potrà che essere incompleta, miope e talvolta deviante. Allo stesso modo una risposta che si auto limiti ad essere “tecnica”, non può che nascondere l’indisponibilità o addirittura l’incapacità a partecipare attivamente, e responsabilmente, al processo.

Spesso, anzi sempre, se si approfondisce l’analisi, il quesito, che il Magistrato pone al CTU, si traduce nella richiesta di una misurazione. Si tratti della stima del valore di un oggetto o di un danno, si tratti di un livello di inquinamento ambientale, di un indice di invalidità o della conformità di un’azione a regole stabilite, è pur sempre una misura. La risposta fornita dal CTU è quindi un numero, a volte espresso in una scala discreta, come i “buono, mediocre, sufficiente, …” che hanno “rivoluzionato” la nostra scuola inferiore. E’ appena il caso di ricordare la demagogia, e forse l’ignoranza, che sono state alla base di queste “rivoluzioni”: si sarebbe ottenuto lo stesso risultato sostituendo ai voti espressi con numeri arabi quelli espressi con numeri romani; un bel “9” sarebbe diventato un classicheggiante “IX”.

Quante volte un Magistrato ha posto lo stesso quesito a diversi consulenti, ottenendone risposte, almeno a suo parere, differenti? Quante volte un CTU si è sentito incapace di esprimere le proprie convinzioni di fronte alle limitazioni imposte dal quesito? Tante volte, forse troppe, con buona pace dei costi e dei tempi processuali.

Se pensiamo poi, che i quesiti, nel processo civile, sono decisi nella completa assenza del CTU e dei consulenti di parte… Così sono formulati normalmente dagli avvocati con il gradimento del magistrato. Errore enorme che andrebbe urgentemente corretto.

Ma quante volte il Magistrato si è preoccupato di capire il problema della misura, ben noto a tecnici e scienziati? Il Magistrato è consapevole che, se chiedesse di localizzare (misurare le coordinate di) dove si trovino tutti i soldi di una tangente, con “certezza assoluta”, potrebbe ottenere una risposta quantomeccanica, che reciterebbe “dovunque, nell’intero universo”? Soltanto se avesse sostituito il termine “certezza assoluta” con “livello di fiducia o probabilità di almeno il 99,9999%”, la risposta sarebbe stata quella voluta: in una certa cassetta, di una certa banca, di un certo paese. Un CTU che avesse fornito la prima risposta sarebbe certamente stato miope, ma comunque avrebbe rispettato la lettera del quesito.

Così, quante volte, magari con un pizzico di malafede, il CTU e, più spesso, il Consulente di parte civile hanno utilizzato i limiti del quesito per non dire tutta la verità, per allungare il procedimento, per agitare le acque?

Quante volte il CTU si è preoccupato di comprendere appieno i valori e gli schemi che guidano il Magistrato nella formazione del giudizio, nella determinazione dell’entità del danno e del risarcimento? Il CTU è sempre consapevole che ogni sua misura, per quanto eseguita “a regola d’arte”, non può essere espressa con un solo numero, ma descrive sempre un intervallo, tanto più ampio quanto più elevato è il livello di fiducia richiesto? Questo intervallo ancora potrebbe estendersi all’intero universo, se si cercasse la certezza assoluta.

Anche se, per fortuna, le convenzioni, in molti casi implicite e non scritte, limitano nella pratica le conseguenze della scarsa cooperazione culturale, è comunque inquietante pensare che, almeno in certi casi, il confronto tra la misura espressa con un numero “secco”, e un altro numero “secco”, contenuto in un testo di legge, condanna o assolve un imputato.

Anche il Legislatore dovrebbe essere attento a questi problemi e dovrebbe guidare la trasformazione introducendo, già nelle norme, il concetto di livello di fiducia, e abbandonando quella ricerca di certezza assoluta, lodevole nel campo della metafisica, ma negata dal pensiero scientifico. Il Magistrato e il CTU possono però da subito, anzi devono, incamminarsi lungo la strada dell’integrazione culturale e professionale, di una sempre più spinta cooperazione.

In fondo capire i principi della corrispondenza tra campioni esaminati e l’oggetto in esame, capire i principi dell’accuratezza e della precisione delle misure, dell’influenza di fattori di disturbo e di generatori di rumore, e, dall’altro lato, comprendere i valori sociali, gli schemi, le garanzie, che concorrono alla formazione del giudizio nel processo civile, e anche in quello penale, non è difficile per nessuno. Anzi ciascuna delle parti dovrebbe essere stimolata da un allargamento dei propri orizzonti culturali, rimanendo nella certezza di non perdere la propria identità, che resterebbe sempre garantita dalle reciproche, necessarie, aree di responsabilità. Non è difficile purché si materializzi uno sforzo nella ricerca di un linguaggio comune, attraverso un dialogo frequente. Proprio come chi vuole cooperare efficacemente con uno straniero non può limitarsi all’uso dell’interprete, ma deve imparare almeno i rudimenti della lingua dell’altro, così Magistrato e CTU devono apprendere parole e concetti propri della cultura dell’altro.

Questa cooperazione tra soggetti, ciascuno con la voglia di apprendere, ma anche con la capacità di insegnare, può prendere un avvio sistematico, uscendo dalla sfera delle iniziative personali, soltanto in un ambiente che garantisca professionalità e preparazione degli interlocutori. Il Collegio Periti Italiani potrebbe candidarsi ad offrire un tale ambiente, lanciando una prima provocazione con un ciclo di incontri proprio sul livello di fiducia della misura. E lo stesso Collegio potrebbe stimolare i Magistrati, attraverso le loro forme associative locali e nazionali, a rispondere con la promozione di altri incontri sul tema dei valori e degli schemi processuali.

L’operazione, se avviata, porterà il processo, civile e penale, verso una risposta completa alle aspettative della società moderna; ma darà anche il suo contributo importante alla progressiva riduzione del contenzioso e quindi alla compressione dei costi della giustizia. Tutti siamo consapevoli di quanti il nostro Paese, in particolare, necessiti di una riduzione dei costi!

Da dazebao.it


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