”I novant’anni dell’Unità non andrebbero accantonati alla svelta, non andrebbero sprecati: dovrebbero contare per tutti, in primo luogo per quanti ancora considerano l’Unità un possibile riferimento culturale e politico, dovrebbero contare molto per i giornalisti italiani, per tentare qualche considerazione poco di bottega e molto aperta al quadro generale, al panorama di un paese che mi sembra stia precipitando (al di là del “più” o “meno” del Pil). Come si può “resistere” immaginando il futuro? Quante responsabilità, quanto lavoro ci spettano? ”.
Sono le conclusioni di un articolo che Oreste Pivetta, redattore ”storico” del quotidiano ”fondato da Antonio Gramsci”, ha pubblicato su Voltapagina, e che riprendiamo su Lsdi.
di Oreste Pivetta
Novant’anni sono tanti e diventano un’eternità se si mettono in fila gli eventi che li hanno segnati e che un giornale come l’Unità, in condizioni spesso terribili, ha cercato di raccontare. Novant’anni dal 1924, quando apparve il primo numero, ad oggi attraverso guerre di ogni genere, attraverso il fascismo, nella clandestinità, nei giorni della liberazione, nelle stagioni della ricostruzione e poi del centrosinistra, del Sessantotto e del terrorismo, di Berlusconi e… dell’incertezza. Ci sono mille ragioni per celebrare l’anniversario, anche per riflettere sulle ragioni di tanta “resistenza” di fronte alle trasformazioni di un paese. Se devo celebrare, non riesco a dimenticare il coraggio di giornalisti, magari improvvisati, tipografi, combattenti antifascisti, che scrissero, stamparono, diffusero il giornale che annunciava e raccontava i grandi scioperi del 1943, da Torino a Milano e via via in tanti altri centri industriali, nell’Italia occupata dai nazisti, scioperi che divamparono intanto per una rivendicazione salariale (un aumento promesso dal regime fascista) e che divennero presto politici, un movimento che rivendicava libertà di fronte agli oppressori. Coraggio ed insieme lucidità politica: quegli scioperi furono il segno della ripresa in campo aperto della lotta contro il nazifascismo e l’Unità contribuì a spiegarlo. Molti di quei giornalisti, tipografi, combattenti finirono nei campi di sterminio nazisti.
In quella vicenda sta anche una delle ragioni, la più forte, della “resistenza” dell’Unità: la capacità di schierarsi dalla parte di un popolo sofferente, forse ancora minoritario, di indicare una prospettiva, di mostrare un traguardo per l’avvenire, non solo protesta, dunque, non solo denuncia, ma costruzione di una alternativa (anche quando viene a mancare qualsiasi garanzia di democrazia), nel segno della concretezza, del realismo (in quel caso del ’43 nella richiesta che venisse rispettato un accordo sindacale sottoscritto da un ministro fascista).
Non è stato sempre così, ovviamente. Si potrebbero ricostruire tanti passaggi di una crisi che si è rivelata nelle sue dimensioni più vaste in questi ultimi anni. Responsabilità politiche e di gestione amministrativa, trasformazioni tecnologiche, degrado di un sistema complessivo dell’informazione si sommano. L’Unità è nata in un paese di analfabeti e si ritrova in un paese di analfabeti di ritorno: vale l’analisi di Tullio De Mauro, che affermava come un terzo degli italiani, pure abilitati alla lettura, non capisce quello che legge. L’Unità ha vissuto e raccontato le più tormentate vicende politiche, economiche, sindacali, culturali, dal dopoguerra ad oggi (da qualsiasi punto di vista) e si ritrova a comunicare con un paese che respinge la politica, ignora le regole democratiche, affonda la cultura nelle chiacchiere dei talk show televisivi. L’Unità e gli altri giornali erano pochi fogli stampati e i devono misurare con l’invadente comunicazione on line, ricchissima, multicolore, attraente, incontrollabile e soprattutto gratuita (spesso di dubbia qualità).
Alla fine si ha la sensazione e quasi la sicurezza ormai di un disastro epocale: in questo senso l’Unità condivide la sua crisi con il Corriere, con il Sole 24ore, con la Repubblica, con tante altre antiche testate, indubbiamente con rischi maggiori: nessuna autentica potenza economica alle spalle, nessun patto di sindacato, scarsissimo sostegno dalla pubblicità. Per questo credo i novant’anni dell’Unità non andrebbero accantonati alla svelta, non andrebbero sprecati: dovrebbero contare per tutti, in primo luogo per quanti ancora considerano l’Unità un possibile riferimento culturale e politico, dovrebbero contare molto per i giornalisti italiani, per tentare qualche considerazione poco di bottega e molto aperta al quadro generale, al panorama di un paese che mi sembra stia precipitando (al di là del “più” o “meno” del Pil). Come si può “resistere” immaginando il futuro? Quante responsabilità, quanto lavoro ci spettano?
Da lsdi.it