Il dibattito sulla riforma dell’Ordine dei Giornalisti sta giustamente appassionando quanti siedono tra i banchi del consiglio nazionale. E’ un buon segno: certifica la vitalità della categoria, la serietà con cui i consiglieri esercitano il loro mandato e, soprattutto, la consapevolezza diffusa tra i colleghi dell’importanza che un istituto come l’Ordine tutt’oggi riveste. Quest’ultimo punto è decisivo, eppure non è affatto scontato.
Da troppo tempo circola nel paese, tra ampie fasce dell’opinione pubblica, l’idea che i corpi intermedi (partiti, sindacati, ordini professionali, associazioni di categoria, ecc.) siano dei carrozzoni inutili, che zavorrano la società civile e che, dunque, vadano fortemente ridimensionati, se non addirittura aboliti. Si guarda al modello anglo-sassone con invidia, senza considerare né le profonde differenze sociali, culturali e storiche che esistono tra le nazioni dell’Europa continentale e quelle di lingua inglese, né gli alti costi in termini di coesione sociale che quel modello comporta.
Ma proprio la convinzione della necessaria funzione che i corpi intermedi svolgono, tanto più in un periodo di crisi come questo, deve spingere coloro che esercitano ruoli di responsabilità al loro interno a trovare la strada migliore per auto-riformarsi ed adeguarsi alle circostanze attuali. Questo vale ancor di più per l’Ordine dei Giornalisti, in una fase storica in cui diventa sempre più complicato definire: il perimetro tra chi è effettivamente “giornalista” e chi, magari, un “comunicatore”; cosa si intende per “informazione” ed a quali regole deontologiche chi se ne occupa debba uniformarsi; come tutelare dallo sfruttamento le migliaia di giovani colleghi, per la stragrande maggioranza pubblicisti, che “fanno” i giornalisti senza usufruire delle garanzie di cui gode il giornalismo professionistico e salvaguardarne la dignità.
Sono queste, a mio modo di vedere, le tre questioni da porre al centro della riflessione che deve condurci a produrre una riforma adeguata ai tempi. Riforma improcrastinabile se non si vuole prestare il fianco a quanti vogliono lo smantellamento dei corpi intermedi. Una riforma che, per usare una metafora tratta dalle vicende politiche di questi giorni, abbia il profilo di una “riforma costituzionale” e non di una “riforma elettorale”.
E’ un peccato che il punto su cui il consiglio nazionale di gennaio ha più discusso, sancendo la spaccatura, a proposito della bozza partorita dalla commissione di saggi incaricati di redigere la proposta di riforma, sia stato quello che regolava i criteri di distribuzione della rappresentanza.
Non può esaurirsi su questo tema lo sforzo riformista. E non si può mortificare il pubblicismo quando lo si affronta, se è vero, come ha dimostrato lo studio del consigliere Pino Rea “La crescita del pubblicismo area fragile del giornalismo professionale”, che oggi “il lavoro giornalistico è in prevalenza nelle mani dei pubblicisti”. Un dato da non sottovalutare se si vuole dar voce ad alcune decine di migliaia di colleghi giovani e che attualmente costituiscono l’impalcatura del sistema dell’informazione in Italia.
Ma non sarebbe intelligente tornare sulle polemiche del consiglio di gennaio. E’ giusto, al contrario, cogliere lo spirito dell’intervento della consigliera Serdoz che richiama tutti alle proprie responsabilità e ad uno sforzo comune di dialogo serrato per uscire fuori dell’impasse.
Proviamo allora a mettere mano alla riforma dotandoci di un profilo strategico e di una visione di lungo periodo. E’ vero che da anni il consiglio nazionale discute sull’argomento, ma non è detto che si debba partire dalle conclusioni a cui si è giunti in passato, anzi. La proposta Bonini, ad esempio, così come declinata, peccava di auto-referenzialità, troppo sbilanciata nell’ottica di chi è già giornalista professionista, ma aveva il pregio di presentare un’idea forte (l’albo unico), animata dalla volontà di dare risposte alla realtà del presente.
E rifuggiamo anche da slogan seducenti, ma pericolosi, come quello in gran voga “Giornalista è chi lo fa!”, che sottilmente sembra dare ragione a quanti ritengono che basta scrivere su di un giornale o su di un blog per esserlo. “Giornalista è chi lo fa… riconosciuto dall’Ordine!”, che sancisce diritti e doveri dei membri della categoria.
In conclusione, rimettiamoci all’opera, dando spazio ed ascolto alle ragioni di tutti e, soprattutto, dei non garantiti e di chi questo mestiere lo farà per i prossimi trent’anni.