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Frequenze tv, una pazza idea

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“Pazza idea”, cantava quarant’anni fa la celebrata Patty Pravo. E così appare la puntata ulteriore della vicenda seriale dell’asta delle frequenze digitali. La settimana passata “Ri-mediamo” aveva chiamato in causa il dicastero dello sviluppo e il vice-ministro Catricalà, per capire che fine aveva fatto la gara. Presto detto. Nella stessa giornata il citato Catricalà, nel corso di un’audizione al Senato, annunciava l’imminenza del bando, firmato effettivamente due giorni dopo. Il caso si chiude, dunque, con soddisfazione generale? Tutt’altro. Innanzitutto, pende sempre il giudizio dell’unione europea, che aveva manifestato più di una perplessità con dichiarazioni inequivoche del commissario Almunia. L’Italia è ancora sotto schiaffo e il procedimento di infrazione è sempre aperto. L’abrogazione della legge Gasparri non è prevista in nessuno dei rompicapi della querelle di governo.  Chiuderà la ferita il testo varato dal ministero? C’è da dubitarne. Infatti, ecco l’altro punto,  l’asta si è totalmente ridimensionata, diventando un bonsai rispetto alle premesse di due anni fa. Quando, finalmente, il governo Monti –dopo una polemica iniziata nell’aprile del 2009- decise di passare dal surreale “beauty contest” (in altre parole la cessione gratuita delle frequenze) all’asta competitiva, il quadro era ben diverso. Si parlava di cinque blocchi (mux) e di un introito per l’erario tra uno e due miliardi di euro. Qualcuno, con eccesso di ottimismo, si spinse a presagirne quattro. In verità, circolava uno studio che attribuiva un valore di 280 milioni di euro ad ogni singolo mux: di qui le cifre di maggiore attendibilità. Perché si è passati dai cinque originari agli attuali tre mux, con una base d’asta di soli 91 milioni? Un’asta discount? Saldi in un clima di larghe intese? Si dice che Rai e Mediaset non parteciperanno alla competizione. Grazie. Entrambi i broadcaster hanno la quota massima prevista dall’Ue, tra l’altro ottenuta in modo discutibile, vale a dire con il cambiamento di destinazione del blocco previsto per la telefonia mobile (Dvbh) , transitato tout court alla televisione digitale (Dvbt). Non solo. Il gruppo Espresso con rete A dispone di due mux, che si aggiungono ai tre della promessa sposa “T-media” di Telecom. Sky ha interesse marginale al digitale terrestre, come è noto. Un’altra pax televisiva? Sembrerebbe. Del resto, quella che appare una bella presa in giro non trova grande spazio nel dibattito pubblico. Eppure, è la metafora dell’eterna questione televisiva di un’Italia che ha interiorizzato l’essenza del berlusconismo e innalzato la tv al rango di vera divinità pagana. Mediaset ha attese e pretese per il futuro visto l’esborso super per i diritti della Champions League 2015-2018.

Per finire, le frequenze in assegnazione non sono tutte uguali. Si va da quelle prelibate, alle mediane, agli scarti privi persino di coordinamento nella pianificazione internazionale. Che significa interferenze e qualità scadente.
Si obietterà che la riduzione dei mux è dovuta alla scelta di dedicare le risorse tecniche alla nuova generazione di cellulari di cui il mercato è ghiotto; ma le gare non si fanno e disfano a seconda dei giri del vento. Così, il deprezzamento economico dell’asta non può passare come resa alle difficoltà del momento, visto che quando il marchingegno fu immaginato, l’Italia parlava solo di “rischio Grecia”. A proposito: nella campagna elettorale per il parlamento europeo si parlerà di simili questioni, vale a dire una politica aperta e solidale –un moderno welfare- per le comunicazioni? Schulz e Tsipras  chiariranno il loro pensiero al riguardo? C’è la necessità di considerare finalmente le frequenze un bene comune, non un terribile diritto di proprietà. Torniamo alla vicenda italiana. Se si parla di un introito di soli 91 milioni di euro, non sarebbe stato meglio destinare le frequenze ad attività senza finalità di lucro: associazioni, università e gruppi della società civile? Come prevede la legge varata in Argentina nel 2009. Pazza idea, appunto.

* da Il Manifesto


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