di Roberta Ronconi –
“12 anni schiavo” di Steve McQueen non è esattamente un film sullo schiavismo americano nel XIX secolo, piuttosto il racconto paradigmatico di una vita che, causa lo schiavismo, subisce una totale rivoluzione in una sola notte. Il protagonista è il “negro” (allora e ancora a lungo, questa resterà l’etichetta ufficiale) Solomon Northop, uomo libero nato a New York dove conduce una dignitosissima vita da musicista con moglie e figli. Un giorno del 1841 viene rapito, privato dei suoi documenti e venduto come schiavo in Lousiana.
Storia vera scritta dal suo protagonista nel 1853, subito dopo i 12 anni passati nelle piantagioni di canna da zucchero e cotone del Sud. Storia che va a coprire un buco narrativo importante, poco conosciuto, quello tra il 1808, quando gli Stati Uniti dichiarano illegale il traffico di schiavi internazionale e la fine della Guerra civile del 1860-61, quando lo schiavismo diventa fuorilegge. Nonostante la forma epica del racconto, Steve McQuinn non rinuncia completamente alla sua visione intima sui protagonisti e i loro destini. Una vicinanza di sguardo che fa male allo spettatore, costretto ad assistere, non tanto a violenze di massa o impiccagioni improvvisate (i morti sono pochi), quanto alla crudeltà uomo-uomo, e soprattutto uomo bianco-donna nera che rende la visione spesso molto stressante.
Un film comunque classico, che ha il pregio di un grande parterre di attori, di una fotografia wide screen appunto da grande epica e di un regista che sa tenere insieme racconto corale e individuale. Un po’ troppi premi, a nostro giudizio, ma gli americani sono molto sensibili ai vecchi sensi di colpa e hanno ricoperto “12 years a Slave” di riconoscimenti di ogni tipo. Manca solo l’Oscar, e anche quello arriverà.