Vedendo ieri sera su Rai Tre il documentario su Giuseppe Fava, mi è venuta in me la straordinaria intervista che Enzo Biagi fece al giornalista catanese Pippo Fava, il padre di Claudio Fava che venne ucciso esattamente trent’anni fa dalla mafia, dopo che aveva detto al grande giornalista emiliano che i mafiosi sono ministri e banchieri e maneggiano migliaia di voti necessari per andare in parlamento e formare i governi. Sono passati molti anni da quelle interviste che il mio amico Enzo faceva in televisione e che spiegavano, con grande chiarezza e neppure un grammo di ideologia superflua (quella di cui oggi si fa un grande uso su gran parte dei mezzi di comunicazione di massa), come stavano le cose sulla scena visibile – ma anche su quella invisibile – della politica italiana.
C’è stato solo un libro negli ultimi tempi che ha parlato di queste cose ed è Il grande gioco del potere di Sandra Bonsanti (Chiare Lettere editore) ma al silenzio dei media occorre far ormai l’abitudine nel nostro sciagurato paese. Chi scrive ha pubblicato un saggio su La mafia come metodo ed ha avuto un doppio privilegio, quello di esser recensito soltanto dal settimanale Internazionale ma anche di esser invitato in Rai a parlarne: peccato che hanno trasmesso l’intervista alle sei e trenta di mattina!
Ma, ai tempi delle interviste di Enzo Biagi in televisione, ed era ancora la cosiddetta prima repubblica, si parlava molto più spesso di mafia e dei poteri legati alle nostre associazioni criminali. E l’intervista di Fava era stata discussa a lungo anche da alcuni politici sui giornali e nelle aule parlamentari.
Peccato che neppure allora si faceva nulla di davvero efficace nella lotta contro le mafie italiane e straniere che infestano il nostro paese. Se ne ha oggi un’ennesima riprova di fronte al succedersi di comuni sciolti per le infiltrazioni mafiose nelle regioni individuate come in quelle delle grandi regioni del Nord Italia diventate negli ultimi decenni le sedi privilegiate del riciclaggio del denaro mafioso e dei grandi investimenti immobiliari e di altro genere che fanno le multinazionali del crimine nella parte più ricca della penisola.
L’anno in cui i governi della repubblica hanno sciolto il numero maggiore di comuni (dopo il culmine, raggiunto nel ’93 in seguito alle grandi stragi di Capaci e di via d’Amelio) è stato l’anno scorso durante il governo Monti: si è arrivati allora a 25 comuni: sei in Campania (tra i quali Casal di Principe ma anche Gragnano, Pagani e Castel Volturno), undici in Calabria (tra i quali la capitale Reggio Calabria), cinque in Sicilia (tra i quali Salemi, Racalmuto e Isola delle Femmine) e a questi si sono aggiunti tre comuni, Ventimiglia in Liguria e due comuni in Piemonte in mano all’ndrangheta come Leinì e Rivarolo Cavanese. Ma quel che preoccupa è che oggi sono sotto la lente di ingrandimento delle commissioni nazionali formate da prefetti tre comuni in Campania (Giugliano, Quarto e Torre del Greco), uno in Puglia (Manduria), dieci in Calabria (tra i quali Cardeto,
Montebello Jonico, Siderno, Taurianova e Rende che è sede dell’Università della Calabria). E nel rapporto 2013 di Avviso Pubblico, l’associazione dei comuni (rete di enti locali contro le mafie) impegnata contro il fenomeno mafioso ritiene che il commissariamento sia più che probabile in quelli già sciolti in un passato recente.
Sapremo nei prossimi giorni che cosa succederà ma se l’esecutivo non attuerà presto le misure già in parte annunciate contro le mafie non c’è da farsi illusioni né si può sperare che l’attacco delle mafie si fermi qualora la situazione economica dovesse improvvisamente migliorare.
Al contrario se le misure avranno successo,è probabile che l’assalto diventi più forte e determinato.