C’è qualcosa di buono nel disegno di legge S.1119, già approvato alla Camera dei Deputati ed in attesa di essere discusso al Senato, con cui vengono poste le basi della riforma “in materia di diffamazione, diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante”. Le disposizioni che prevedono l’abolizione della pena detentiva per i giornalisti ritenuti responsabili del reato di cui all’art. 13 della legge n. 47/1948 ed un termine di prescrizione breve (due anni) per l’esercizio dell’azione civile in tema di risarcimento del danno alla reputazione, vanno senz’altro accolte con favore, in quanto limitano intollerabili eccessi repressivi e talune pratiche vessatorie consentite dalla normativa vigente. Allo stesso modo va considerata con apprezzamento l’eliminazione della ulteriore “riparazione pecuniaria” che, nella formulazione attuale dell’art. 12 della legge sulla stampa, va ad aggiungersi, in caso di condanna del giornalista, agli obblighi risarcitori dovuti alla persona offesa. Parimenti necessaria si rivela l’estensione del vincolo del “segreto professionale”, oltre che ai professionisti, anche ai giornalisti pubblicisti iscritti nell’apposito albo, per troppo tempo sottratti a questa essenziale prerogativa posta a protezione delle loro fonti (“nuovo” art. 200 c.p.p.).
In più punti, tuttavia, il testo normativo rimane sicuramente migliorabile se si vuol pervenire ad una riforma organica dell’ordinamento giuridico che sappia contemperare al meglio le primarie esigenze di tutela dei diritti inviolabili della persona, l’esercizio del diritto/dovere di cronaca e di critica giornalistica ed il principio di salvaguardia della libertà di informazione che trova solenne enunciazione nell’art. 21 della Costituzione. Proprio in questi giorni, i componenti del gruppo di lavoro dello “Sportello Querele Temerarie Roberto Morrione” saranno ricevuti dal Presidente del Senato al quale avranno premura di evidenziare alcune persistenti lacune del testo legislativo, di cui si auspica il superamento in questa fase del dibattito parlamentare. Forti perplessità, infatti, scaturiscono dall’assoluta esclusione di ogni commento in calce alla rettifica pervenuta da un soggetto citato in una pubblicazione giornalistica. A fronte del ricorso sempre più disinvolto all’azione penale quale mero strumento di pressione e condizionamento dei media, non si può non dubitare, inoltre, della concreta valenza deterrente di una eventuale condanna del querelante in mala fede (che, secondo quanto previsto nella riforma, potrà essere obbligato dal giudice al versamento presso la cassa delle ammende di una somma compresa fra i 1.000 e i 10.000 euro). La stessa facoltà, riconosciuta ai direttori ed ai vicedirettori delle testate giornalistiche, di delegare ogni funzione di controllo sulle singole pubblicazioni e, quindi, ogni responsabilità penale, «a uno o più giornalisti idonei a svolgere le funzioni di vigilanza», nel momento in cui esonera la struttura apicale della redazione da questo fondamentale onere di supporto e garanzia del lavoro dei cronisti, non sembra rendere il giusto onore a chi si espone in prima linea per fornire un’informazione libera e – spesso proprio per questo – quanto mai scomoda e da taluni sgradita.
La trasposizione in un unico disegno di legge di proposte normative originariamente disomogenee ha portato, d’altronde, ad esiti che assumono, sotto il profilo squisitamente ermeneutico e giuridico, risvolti a tratti paradossali. Il “nuovo” art. 13 della legge sulla stampa, destinato a ridefinire la cornice edittale delle pene previste per i reati tipici dei mass media, contempla due diverse fattispecie criminose: a) la diffamazione “generica”, punita con «la pena della multa da 5.000 euro a 10.000 euro» e b) la diffamazione “aggravata”, realizzata mediante «attribuzione di un fatto determinato falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità» e punita con «la pena della multa da 20.000 euro a 60.000 euro». In ambedue i casi viene prevista, quale pena accessoria, la pubblicazione della sentenza e, in caso di recidiva, l’interdizione dalla professione giornalistica da un mese a sei mesi. Scompare del tutto, nella novella legislativa, la fattispecie di diffamazione a mezzo stampa con attribuzione, sic et simpliciter, di un fatto determinato (qualificato senza ulteriori e ridondanti precisazioni), con cui viene oggi perseguita la condotta di chi, con colpevole negligenza professionale ma senza avere un piano premeditato volto a ledere l’altrui reputazione, pone in essere la condotta di cui all’art. 13 della legge n. 47/1948. È questa, ovviamente, l’ipotesi di reato più ricorrentemente contestata ai giornalisti nelle aule giudiziarie. Ebbene la riforma normativa, nella stesura già approvata alla Camera dei Deputati, introduce nel nostro sistema penale una fattispecie criminosa ben diversa rispetto a quella attualmente configurata dalla legge sulla stampa. Il ddl Costa si limita a perseguire, con una pena pecuniaria che deve ritenersi paradossalmente “lieve” (multa da 20.000 a 60.000 euro), un’ipotesi aggravata e particolarmente odiosa di diffamazione. La condotta delittuosa presuppone, dal punto di vista oggettivo, l’attribuzione di un fatto determinato lesivo dell’altrui reputazione di cui è stata accertata la falsità e, dal punto di vista soggettivo, la consapevolezza, da parte dell’autore della pubblicazione, della infondatezza della notizia diffusa mediaticamente. Nonostante non manchino, nella storia del giornalismo italiano, precedenti eclatanti in cui la “macchina del fango” ha devastato carriere, famiglie, singole esistenze e sporcato in maniera forse indelebile l’immagine dell’intera categoria professionale, si è indotti a ritenere che saranno ben pochi i casi in cui potrà essere ragionevolmente contestata e provata la responsabilità di un “giornalista” per la preordinata realizzazione di un disegno criminoso tanto ripugnante quanto diabolico.
Per semplificare i contenuti della disquisizione giuridica, basterà far riferimento ad un caso concreto. Ipotizziamo la vicenda dell’improvvido giornalista Caio che abita nello stesso condominio di un noto esponente politico, appartenente ad un partito fortemente osteggiato dalla sua redazione. Il giornalista apprende “confidenzialmente” dal portiere dello stabile che l’illustre “vicino di casa” è stato appena lasciato dalla moglie perché, stando a quanto gli avrebbe espressamente riferito in lacrime la “signora”, la stessa lo avrebbe “scoperto a letto” con un bambino. Effettivamente – rileva lo zelante portiere – lui stesso aveva avuto già dei sospetti circa la perversione sessuale dell’“onorevole” posto che lo aveva visto più volte intrattenersi, anche ad ora tarda, con “un minore” al quale non esitava a rivolgersi in maniera “a dir poco equivoca”. Per provare la sua “intuizione investigativa”, il portiere fa visionare al giornalista, per mestiere e vocazione curiosissimo, una foto scattata di nascosto con il suo smartphone che ritrae l’anziano uomo politico intento a congedare sull’uscio di casa un bambino “visibilmente turbato” mentre, sussurrandogli all’orecchio, sofferma “ambiguamente” un dito sulle labbra del fanciullo. Al mediocre giornalista quella foto appare come un primo pesantissimo indizio di reità a carico del “pedofilo prestato alla politica”. Prima di “smascherare definitivamente quel pervertito”, il giornalista Caio riesce ad ottenere un incontro con la moglie del parlamentare che senza troppa resistenza gli rivela, sconvolta ed incurante del registratore acceso, ogni dettaglio dello scandalo, fornendogli addirittura copia del verbale di denuncia da lei presentata, appena una settimana prima, al Commissariato di zona con l’obiettivo esplicito di “mandare in galera quel maniaco”. Caio ritiene di aver trovato l’autorevole riscontro che cercava e, dopo aver acquistato a buon prezzo la “foto del politico che sussurra al bambino”, corre in redazione e scrive l’articolo che, il giorno successivo, distruggerà la vita di quell’uomo. È inutile dire che quanto riferito e denunciato dalla donna (che cercava la sua vendetta per ben altra tipologia, penalmente irrilevante, di infedeltà coniugale) era clamorosamente falso. Ugualmente falsi erano i pettegolezzi del portiere. Originale era solo quella foto che ritraeva un nonno che rimproverava affettuosamente il nipotino invitandolo a “non dire più quelle brutte parole”. Il danno causato dalla pubblicazione di quella notizia, di quella foto (per quanto oscurata “al fine di non turbare la sensibilità dei lettori”), della copia della denuncia presentata dalla donna e della registrazione integrale di quanto “rivelato”, dalla stessa, al giornalista Caio, ha un effetto drammatico per la vittima di questa barbarie. Quel cronista senza etica e la spregiudicata testata che ha dato spazio a questo ignobile “scoop” del tutto privo di fondamento, hanno ancora una volta disonorato la professione giornalistica.
Oggi una simile condotta può essere perseguita con una pena rigorosa. Con la novella legislativa prevista dal disegno di legge Costa un simile comportamento verrebbe ad essere punito con una sanzione penale del tutto irrisoria. Per quanto grave ed evidente sia stata la superficialità di Caio non si può obiettivamente affermare, infatti, che la diffusione di quella diceria sia avvenuta con la piena consapevolezza, da parte del giornalista, della falsità del pettegolezzo. D’altro canto, suona alquanto stravagante una norma penale che aspira a punire la diffusione di un «fatto determinato falso», senza incidere in alcun modo sulla disposizione, destinata a rimanere immutata anche a seguito dell’eventuale approvazione della riforma in esame, che preclude (quantomeno in astratto) l’exceptio veritatis e, quindi, ogni accertamento in ordine alla verità o notorietà del fatto (art. 596 c.p.). Non ci rimane che sperare che un intervento del Senato ponga rimedio, finché si è in tempo, a questo sconcertante misfatto normativo, consentendo una differenziazione delle singole condotte che sia in grado di corrispondere alle esigenze di tutela del cittadino e dei giornalisti che svolgono scrupolosamente la loro eminente professione. Basterebbe un semplice emendamento volto a cancellare ogni fuorviante specificazione (fatto determinato «falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità») rispetto alla comune fattispecie di diffamazione aggravata commessa con il mezzo stampa o della radiotelevisione. Spetterà altrimenti alla giurisprudenza di stabilire, alla stregua di quanto disposto dall’art. 2 c.p., come dovrà essere regolata la successione della legge penale fra la “vecchia” fattispecie di “diffamazione a mezzo stampa con attribuzione di un fatto determinato” (art. 13 legge n. 47/1948 come vigente) e la “nuova” fattispecie di “diffamazione a mezzo stampa o della radiotelevisione con attribuzione di un fatto determinato falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità”, di cui discutiamo de iure condendo. Rilevata l’assenza nell’ordinamento “post riforma” di una norma ad hoc volta a perseguire, nella specificità del contesto mediatico, la diffamazione con attribuzione di un fatto determinato (commessa con colpevole violazione dei doveri professionali ma senza preventiva consapevolezza della falsità della notizia), l’inqualificabile comportamento di Caio potrebbe essere ricompreso nella fattispecie di cui al “nuovo” art. 595 c.p. che punirà (con una multa fino a euro 15.000, aumentabile della metà) il comportamento del comune cittadino che offende l’altrui reputazione «con qualsiasi mezzo di pubblicità». Più correttamente, però, a sommesso avviso di chi scrive, l’antico postulato ermeneutico secondo il quale lex specialis derogat generali dovrebbe indurre la giurisprudenza a ritenere inapplicabile, nell’ambito della diffamazione commessa a mezzo stampa, la fattispecie “generale” di cui all’art. 595, II e III comma, c.p. data la sussistenza di una legge penale speciale che regola nel dettaglio i risvolti penale della professione giornalistica (qual è, per l’appunto, la legge n. 47/1948 così come suscettibile di modifiche e integrazioni). Non mancherà allora, in dottrina, chi si spingerà addirittura a sostenere, facendo richiamo all’altro noto brocardo interpretativo “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, l’assoluta irrilevanza penale della condotta di Caio, data l’intervenuta abrogazione della fattispecie di reato astrattamente configurabile nel caso de quo. Più ragionevolmente – a modesto parere di chi scrive – dovrà configurarsi a carico del pessimo “giornalista” Caio il reato di diffamazione “generica” a mezzo stampa, punibile con la pena della multa da 5.000 a 10.000 euro, posto che l’ipotesi aggravata, così come formulata nel disegno di legge Costa, è destinata a rimanere quasi del tutto inapplicata ed inapplicabile in futuro. L’irreparabile lesione della dignità di una persona annientata dal pettegolezzo di un portiere, dalla vendetta di una moglie tradita e, soprattutto, dall’inqualificabile condotta di un indegno “giornalista” rischia dunque di rimanere punibile, a tutto voler concedere, con una modica multa compresa fra i 5.000 e i 10.000 euro.
La proporzionalità della pena rispetto all’entità dell’illecito pare difettare, ancora, nella circostanza contemplata al comma III del “nuovo” art. 13 della legge sulla stampa, laddove le pene pecuniarie previste per il reato consumato di diffamazione a mezzo stampa vengono sommariamente estese «anche al direttore o al vicedirettore responsabile del quotidiano, del periodico o della testata giornalistica, radiofonica o televisiva o della testata giornalistica on line registrata (…) che, a seguito della richiesta dell’autore della pubblicazione, abbia rifiutato di pubblicare le dichiarazioni o le rettifiche (…)». Forse per un mero errore formale la disposizione non fa alcun cenno alla responsabilità del “giornalista professionista” eventualmente delegato dal direttore o dal vicedirettore al controllo sulla redazione, come previsto dalla novella legislativa (“nuovo” art. 57 c.p.). Ad ogni modo, la condotta di chi diffonde tramite i mass media notizie diffamatorie va doverosamente distinta, anche nella ponderazione dei limiti edittali di pena, dal comportamento – pur biasimevole ma obiettivamente di minore gravità – posto in essere da chi “più semplicemente” omette di pubblicare la nota di rettifica. L’equiparazione fra le sanzioni previste per le diverse condotte delittuose appare come il frutto di una incongrua semplificazione aritmetica di assai dubbia legittimità costituzionale.
Il Senato della Repubblica ha ora il compito di porre rimedio a queste aporìe normative, restituendo alla Camera e, quindi, al Paese una riforma normativa che sia di facile interpretazione ed applicazione e che sia in grado di sancire, davvero, un punto di svolta rispetto al passato. La riforma del diritto penale dell’informazione è davvero troppo importante per tramutarsi nell’ennesima occasione mancata da parte del legislatore.
*Sportello Querele Temerarie “Roberto Morrione”