Per quanto possa sembrare incredibile, la realtà è questa: mentre si appresta a celebrare il centesimo anniversario della barbarie della Grande Guerra, l’Europa in maggio potrebbe trovarsi a dover fare i conti con un altro conflitto, non meno pericoloso e drammatico di quello che costò alle sole truppe italiane seicentomila morti.
Benché stavolta non sia previsto nessun carro armato, nessun filo spinato, nessuna granata, nessun colpo di mortaio e nessun morto in battaglia, purtroppo, anche se vorremmo, non possiamo escludere tante altre Caporetto, tante altre disfatte, tanti altri disastri, in questo caso non di natura militare ma senz’altro sul piano umanitario, economico, politico, culturale e civile, se davvero le forze più populiste e retrograde che si conoscano dai tempi dei regimi totalitari che proliferarono a cavallo tra le due guerre dovessero conquistare il venticinque-trenta per cento alle prossime Europee.
Sarebbe la fine di tutto: dell’Unione bancaria, del rafforzamento delle istituzioni continentali, del sogno spinelliano di un’Unione politica e anche, naturalmente, di ogni prospettiva di crescita, di sviluppo, di rilancio dell’economia e di ripresa delle prospettive occupazionali dei giovani che a quel punto, probabilmente, per veder valorizzate le proprie capacità e i propri meriti non potrebbero fare altro che trasferirsi in altri continenti: nell’Asia al galoppo oppure nel vecchio, rassicurante Nord-America ma non certo in Europa, non in un’Europa condizionata da forze euroscettiche e xenofobe, nemiche dell’euro, contrarie all’immigrazione, al multiculturalismo e alle società multietniche, ovviamente avverse ai diritti umani e totalmente disinteressate a questioni come la dignità e le tutele dei lavoratori.
Perché il rischio è proprio questo, lo ripetiamo da mesi, lo ripetono da mesi, se non da anni, decine di illustri economisti e sociologi: una marea montante e inarrestabile di populismo, qualunquismo, demagogia e propositi sfascisti che si abbatte su tutto il Vecchio Continente, spazza via le poche forze progressiste e responsabili rimaste e porta a Strasburgo il proprio programma volto unicamente a distruggere, destabilizzare e dar fuoco alle polveri, senza una sola proposta costruttiva che sia una.
D’altronde, basta ascoltare le parole della Merkel, considerata a ragione una delle principali responsabili dell’imminente catastrofe, per rendersi conto che nemmeno lei è poi così allegra e spensierata di fronte a una prospettiva del genere. Asserisce, infatti, la Cancelliera: “Verrà il momento in cui sbanderemo, come i sonnambuli nell’estate 1914”. La frase, certamente, non è sua, riprende il titolo di un saggio dello storico Cristopher Clark (“I sonnambuli”, per l’appunto, pubblicato in Italia da Laterza); tuttavia, essendo stata pronunciata nel corso dell’ultimo vertice europeo, e riportata su “la Repubblica” dalla figlia di Altiero Spinelli, delinea uno scenario quanto meno sinistro: come se qualcuno sapesse, avesse intuito, fosse in grado di intervenire ma non volesse o non potesse e dall’altra parte ci fosse uno sparuto drappello di intellettuali che, come sempre accade in questi casi, gridasse disperatamente affinché chi sa e può agisca prima che sia troppo tardi, prima che la tragedia diventi ineluttabile, prima che l’Europa torni davvero ad essere un campo di battaglia senza diritti e senza dignità.
Va senz’altro in questa direzione l’appello promosso lo scorso 22 dicembre su “il manifesto” da un gruppo di personalità, tra cui spiccano i nomi di Luciano Canfora, Stefano Rodotà, Salvatore Settis e Guido Rossi, intitolato “Urgente per l’Europa” e all’interno del quale si legge: “Concepita nel segno della speranza, l’Europa unita – arbitra della scena politica continentale – rappresenta oggi, agli occhi dei più, un potere ostile e minaccioso. E la stessa democrazia rischia di apparire un mero simulacro o, peggio, un pericoloso inganno. Perché? È la crisi – come si suole ripetere – la causa immediata di tale stato di cose? O a determinarlo sono le politiche di bilancio che, su indicazione delle istituzioni europee, i paesi dell’eurozona applicano per affrontarla, in osservanza ai princìpi neoliberisti? Noi crediamo che quest’ultima sia la verità. Siamo convinti che le ricette di politica economica adottate dai governi europei, lungi dal contrastare la crisi e favorire la ripresa, rafforzino le cause della prima e impediscano la seconda”. È esattamente così.
Perché va bene il sensibile calo dello spread (era ora!), va bene qualche piccolo investimento, va benissimo lo sforzo del governo Letta di rimettere in carreggiata il Paese ma il punto lo aveva individuato bene, qualche giorno fa, l’ex vice-ministro Fassina: il problema sta a Bruxelles. O si inverte la rotta delle istituzioni comunitarie, difatti, o i sacrifici dei singoli stati, per quanto mostruosi e dolorosissimi, si riveleranno inutili.
Perché sbaglia, e di grosso, chi liquida la questione focalizzando la propria attenzione sulle mancate riforme strutturali del nostro Paese; come sbaglia, non poco, chi si illude che la panacea di tutti i mali sia l’eliminazione di alcune garanzie a vantaggio dei lavoratori (ad esempio l’articolo 18) e un’ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro, come se in Italia non fosse già abbastanza flessibile. E cade in errore anche chi, pur non partendo da questi presupposti errati, ne fa un caso unicamente italiano: non è così. La verità è che ad essere sotto attacco è l’intera Europa, la sua stessa ragione di esistere, i suoi valori, i suoi princìpi, i suoi ideali, le ragioni storiche per cui è stata progettata e faticosamente costruita, smantellate giorno dopo giorno dall’offensiva liberista che, oltre ad essere nemica giurata di un’Unione politica (per l’ovvio motivo che essa sarebbe in grado di opporsi seriamente allo strapotere della finanza speculativa che sta distruggendo l’economia reale), ha deciso, da qualche anno, di sferrare l’assalto decisivo ai diritti, nel tentativo di portare a compimento il disegno avviato con tanta pertinacia da Margaret Thatcher.
E la sinistra? Dove sono le forze progressiste in tutto questo? Come ha scritto magistralmente l’europarlamentare Sylvie Goulard in un articolo per il “Corriere della Sera”: “Di fronte a questa sfida, la generazione al potere in Europa esita. Quando, secondo i sondaggi per le prossime elezioni Europee, il 25% dei cittadini francesi è pronto a votare Marine Le Pen e il suo programma di distruzione dell’Unione Europea, di chiusura delle frontiere e di nazionalismo xenofobo, che cosa fanno i partiti francesi? Oppongono una prospettiva chiara per il futuro? No. Rincorrono i populisti con una versione light delle stesse idee: nazionalismo a mezza voce, protezionismo, chiusura. Nel Regno Unito, il premier Cameron corre dietro a Nigel Farage e ai suoi discorsi ostili agli immigrati. Sulla necessità di accelerare l’integrazione, i responsabili fanno un giorno un passo avanti verso un’Unione Europea federale, il giorno dopo due indietro in nome della <<sovranità nazionale>>. La UE è incompiuta”.
Già, e spiace dover far notare a cotanti statisti che la “sovranità nazionale” è oggi un concetto sconosciuto persino ai più raffinati manuali di politologia. Tuttavia, si sa, questi sono né più e né meno che i frutti avvelenati del pensiero unico: di un’ideologia soffocante e barbara che ha fagocitato ogni forma di pensiero, distrutto l’autonomia culturale e il fervore morale di almeno due generazioni e incattivito la politica e l’intera società. E molti, troppi si sono adeguati e continuano ad adeguarsi, condannando il Vecchio Continente a un lento declino e a una progressiva irrilevanza.