Parlava della musica come di una «magia» Claudio Abbado, l’aveva conosciuta da piccolissimo, quando suo padre Michelangelo, musicista anche lui, e sua madre Maria, da cui aveva ricevuto la prima lezione di pianoforte, lo portavano ai concerti e quell’uomo sul podio agitava una bacchetta come un mago. Così la musica ha voluto viverla in una carriera con pochi paragoni possibili, non solo nel nostro paese, ma in tutto il mondo.
Eppure la commozione che in queste ore attraversa l’universo della musica e della cultura dice qualcosa di più su questa particolare figura di direttore d’orchestra. Abbado infatti ha profondamente rivoluzionato il mestiere e l’immagine del demiurgo capace di letture musicali uniche e irripetibili.
Per quanto suggestiva, per il musicista milanese una interpretazione non aveva un valore in sé, ma come parte di disegni complessi e ambiziosi, in grado di influire sulla vita culturale di una collettività – e non solo. Basta seguire la sua carriera, 18 anni di permanenza alla Scala di Milano, 5 all’Opera di Vienna, 12 con i Berliner Philharmoniker, per capire come Abbado abbia saputo cogliere e interpretare le esigenze di trasformazione della società.
Più che eventi unici, indimenticabili e dunque presto dimenticati, Abbado ha dato vita a cicli articolati: a Milano nella temperie del post ’68 dedicati a Mahler, allora non troppo conosciuto ed eseguito in Italia, a Rossini, a Berg e a Musorgskij, mentre del pari faceva concerti nelle fabbriche e la Scala riservava posti agli studenti e agli operai. Nella Vienna conservatrice, con il festival “Wien Modern” ha sdoganato la musica contemporanea, che tuttavia non considerava un mondo a sé, ma parte di tutta la musica. A Berlino, dove è arrivato nel reame un po’ stagnante del vecchio Herbert von Karajan pochi giorni dopo l’abbattimento del muro, ha dedicato interi cicli di programmazione a temi centrali della storia della cultura, da Prometeo a Faust, da Hölderlin a Shakespeare rivolgendosi anche a musicisti provenienti dall’Est del paese.
Ne scaturiva l’esigenza e la capacità da una parte di coinvolgere anche grandi artisti non musicisti e dall’altra di creare nuove compagini, spesso dedicate ai giovani. Abbado ha fondato ben 6 orchestre, (l’European Community –oggi Union– Youth Orchestra, la Filarmonica della Scala, la Chamber Orchestra of Europe, la Gustav Mahler Jugendorchester, la Mahler Chamber Orchestra, l’Orchestra Mozart di Bologna, cui si può aggiungere l’Orchestra del Festival di Lucerna, benché sia formazione legata a un particolare evento).
Dunque per Abbado come intellettuale della musica –definizione che forse non gli sarebbe piaciuta–, la tanta attività di organizzazione e progettazione non poteva che avvenire anche grazie a un rapporto con la politica, che il musicista milanese ha sempre vissuto come impegno e non a caso è stato nominato senatore a vita.
E tuttavia non si può nascondere che quello che negli anni ’60 e ’70 era un impegno politico si sia poi lentamente trasformato in un impegno civile: da una parte probabilmente c’era il timore di essere usato, dall’altra sicuramente il segno, se si vuole la reazione a quella crisi della politica che tutti viviamo con disagio.
Le interpretazioni di Abbado traggono forza dai progetti culturali in cui erano inserite, ma spiccano per intelligenza e sagacia nel cogliere nei grandi testi della tradizione gli aspetti meno consueti e abitudinari; nel riscoprire partiture cadute nell’oblio facendone apparire il valore attuale; nell’impegno verso la musica contemporanea (letture mirabili testimoniate dalle registrazioni di Mahler, Beethoven, Verdi, Berg, Nono solo per citare alcuni compositori). Un approccio laico e non scontato, da cui negli anni nasceva anche la profonda diversità delle interpretazioni di singole partiture.
E infatti sul podio Abbado era molto più musicista che intellettuale: di poche parole nelle prove, durante l’esecuzione sprigionava una energia che contagiava uno per uno i membri dell’orchestra e i solisti. Tutto ciò si traduceva in una prodigiosa capacità di cogliere con naturalezza i tempi e la loro articolazione, sempre vitali e mai frettolosi; nella qualità della concertazione, negli adamantini equilibri sonori, nelle prodigiose dinamiche tra piano e forte.
In un’epoca come la nostra che privilegia l’interprete rispetto all’autore, si pone la domanda non peregrina di quale sia l’eredità di un direttore d’orchestra. Per un compositore, un letterato o un artista visivo, la risposta sarebbe semplice: la sua opera. Per un direttore d’orchestra si potrebbe dire le sue registrazioni, oggi sempre più sofisticate e anche in video. Tuttavia, come sanno bene gli appassionati, dalle edizioni commemorative extralusso allo scaffale degli sconti il passo è breve ed è difficile prevedere cosa succederà delle orchestre fondate dal Maestro.
In ogni caso l’esperienza di Claudio Abbado lascia a chi la saprà cogliere una chiara eredità: l’arte dei suoni non come astrazione idealistica, ma come parte integrante della cultura da ritrovare collettivamente, come impegno civile, come magia del «fare musica insieme da reinventare», anche con il pubblico, ogni giorno.