Pur non essendo ancora conclusi i lavori della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza sul contratto di servizio RAI-Stato 2013-2015, il Ministro per lo Sviluppo economico non solo ha inviato alla Corte dei conti, per la relativa registrazione, il decreto del 17 dicembre 2013 – che blocca l’aumento del canone RAI di € 1,50 (dico: un euro e cinquanta per ogni utente, con un omesso provento della Rai superiore ai ventidue milioni di euro) – ma, a seguito della registrazione in data 3 gennaio 2014 (pur effettuata in mancanza del parere), ne ha disposto la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dello scorso 23 gennaio.
L’episodio presenta dei risvolti istituzionali assai inquietanti. Infatti il decreto ministeriale richiama specificamente, nelle premesse, il contenuto del contratto di servizio 2013-2015, sul quale la Commissione parlamentare non ha però ancora espresso il suo parere “obbligatorio”!
E’ bensì vero che l’art. 1, lett. b), comma 10 della legge n. 249 del 1997, dà alla Commissione il termine di 30 giorni per esprimere il suo parere sul contratto di servizio (abbondantemente trascorsi da circa tre mesi), ma è pacifico che il termine di trenta giorni è stato sempre considerato non perentorio. Del resto, mai, come in questa occasione, il Ministero avrebbe dovuto prudentemente attendere il parere della Commissione. Il contratto di servizio 2013-2015, esplicitamente delimitando «gli obblighi di servizio pubblico», viola infatti, palesemente, l’art. 2 comma 1 lett. m) del Testo Unico della Radiotelevisione, il quale dispone che «il servizio pubblico generale radiotelevisivo» è esercitato su concessione «mediante la complessiva programmazione anche non informativa, della società concessionaria», che pertanto comprende tutti i generi: informazione, educazione, cultura, sport, intrattenimento leggero ecc.
Di fronte alla sentenza della Corte costituzionale n. 826 della del 1988, al protocollo n. 32 annesso al Trattato di Amsterdam, alla risoluzione del 19 settembre 1996 del Parlamento europeo, alla decisione della Commissione europea del 15 ottobre 2003, al protocollo n. 29 annesso al Trattato di Lisbona e, soprattutto, di fronte al chiaro enunciato del Testo Unico – che ribadiscono tutti, da un lato, la missione di servizio pubblico degli organismo pubblici di radiodiffusione e, dall’altro, il contenuto generalista del servizio pubblico – come può il Ministero imporre alla Rai che un bollino colorato, segnalando i programmi di servizio pubblico, escluda l’intrattenimento leggero?
Né potrebbe osservarsi, in contrario, a sostegno della legittimità del contratto di servizio, che, con la scelta di distinguere taluni programmi da altri, si intendono evidenziare quelli finanziati con il contributo del canone. Le entrate della società concessionaria del servizio pubblico sono infatti, a pari titolo, sia quelle derivanti dal c.d. canone di abbonamento televisivo sia quelle provenienti dalla pubblicità commerciale, entrambe destinate a finanziare l’intera programmazione della Rai quale che sia il genere.
Se quindi è ammissibile che, per ragioni interne di contabilità, si preferisca tener distinte le due entrate destinando il finanziamento con il canone solo a taluni generi, questa scelta contabilistica non dovrebbe però avere rilevanza esterna, altrimenti si pregiudica irreparabilmente l’unitarietà della «complessiva programmazione, anche non informativa, della società concessionaria» (art. 2 comma 1 lett. m, citato).
(nella foto la delegazione di Articolo21, composta da Alessandro Pace, Renato Parascandolo, Tommaso Fulfaro, Stefano Corradino audita in Vigilanza il 23 gennaio 2014)