Ha profondamente ragione Stefano Rodotà a dire che in un incontro sulla riforma elettorale conta anche «chi» si siede al tavolo. E Silvio Berlusconi non è un interlocutore che sbaglia, ma con cui è indispensabile fare i conti. Il segretario del Partito democratico, personalità decisamente coeva al tempo mediatico, avrà pur pensato al valore simbolico di una simile riunione. Svoltasi presso la sede nazionale del Pd con un signore recentemente condannato in via definitiva e prossimo a scontare un anno di pena. E ben poco contano le risposte ai critici — buone maniere a parte — in quanto rei della stessa colpa. È vero. La subalternità al berlusconismo è una patologia antica e inquietante. La fuga dei gruppi dirigenti dalla necessità di applicare adeguatamente già nel 1994 la normativa sulle ineleggibilità fu il sintomo preoccupante della malattia, diventata stabile e infettiva nell’elusione del grumo del conflitto di interessi. Il non aver avuto il coraggio di mettere mano secondo lo stato di diritto al trust televisivo diventato impero politico è una delle cause decisive per capire ciò che accade oggi. Per comprendere quanto l’humus si sia omologato: declinando le diverse sfumature di berlusconismo che hanno sussulto anche buona parte delle postazioni dell’ex sinistra.
Incredibile ma vero. Come nel giro dell’oca si è ripiombati a vent’anni fa. A meno che Renzi non pensi di tornare a Waterloo per vincere, a dispetto di chi ha perso. Forse la fenomenologia del tycoon di Arcore andrebbe analizzata con strumenti diversi rispetto alla classica polarità dialettica di media e politica.
C’è qualcosa di profondo che attiene alla cultura di massa e alla debolezza morale di uno stato mai divenuto pienamente nazione. Spunti si trovano nell’ interessante volume di Orsina sul berlusconismo nella storia italiana (2013) o nelle recenti analisi di Carlo Formenti (2013) sulla parabola post-democratica. Del resto, la Storia si incarna sempre in qualcuno, non necessariamente buono e virtuoso. Anzi. Però, se è così, diventa insopportabile che i temi cruciali del conflitto di interessi e della televisione non entrino nel vasto capitolo delle riforme istituzionali. I rischi di incostituzionalità del progetto avanzato da Matteo Renzi si moltiplicano a dismisura se non si tocca il core business del potere contemporaneo, quello della società dell’ informazione.
tto in altre parole: accanto ai meccanismi elettorali è essenziale rimettere ordine nella sconquassata sovrapposizione di ruoli nella vita pubblica. La prova elementare di simile urgenza sta nella riproposizione, come se niente fosse, della prima scena del primo atto (Berlusconi dietro la scrivania) dell’eterna tragedia. C’è poco da cantare vittoria. Così facendo si lede l’edificio democratico e si elimina la possibilità di sperare in un’alternativa. Qualcuno, persino autorevole, sostiene che continuare a parlare di riforma della comunicazione e di conflitto di interessi è una causa persa. Si legga — autorevolezza per autorevolezza — quanto scrive In difesa delle cause perse (2013) Slavoy Zizek: «La nostra difesa delle Cause perse non si propone un gioco decostruttivo… al contrario… di assumere coraggiosamente la piena realizzazione della Causa…». E sì, perché l’illusione di vincere perdendo è la peggiore delle Cause perse.
http://ilmanifesto.it/la-causa-si-e-persa/