Tra le anomalie permanenti dell’eterno caso italiano (progressivo negli anni settanta dello scorso secolo e ora mero impaccio per lo sviluppo democratico) c’è la piaga dell’irrisolto conflitto di interessi. La legislazione esistente è meno di un`aspirina, talmente a maglie aperte che nessuno si è accorto – dal 2004 – neppure che esistesse. Il messaggio alle televisioni inviato da Berlusconi domenica scorsa ai telegiornali, integralmente o quasi trasmesso dalle testate di Mediaset, sta a dimostrare che il conflitto di interessi e il sostegno privilegiato sono più attuali che mai. Guai a considerare la legge elettorale una monade chiusa e non comunicante. Il corretto rapporto tra media e politica è coessenziale per ristabilire regole di parità e in queste ore è essenziale che se ne parli.
Per non ripetere i gravissimi errori del passato, quando la destre facevano ostruzionismo e il centrosinistra – i gruppi dirigenti, con pochissime eccezioni – sottovalutò la portata del sistema radiotelevisivo. Peccato mortale. Tra l`altro, tra i corsi e ricorsi della storia ce n`è uno che dà un brivido nella schiena: nel 2000 le leadership decisero di privilegiare nell`ultimo anno della legislatura la riforma del titolo 5° della Costituzione rispetto alla ripresa della discussione sul conflitto di interessi. E ora sembra di rivivere quel momento.
Bene hanno fatto Carlo Rognoni e Vinicio Peluffo su queste stesse pagine a porre il problema del Ministero dello sviluppo, e in particolare del viceministro con delega alle comunicazioni. Nessuno mette in discussione le competenze giuridiche di Antonio Catricalà. Tuttavia, da chi è stato presidente dell`Autorità antitrust -cui spetta la sorveglianza sui conflitti di interesse- ed è ora riferimento dell`esecutivo per il delicatissimo settore, ci si aspettava qualche iniziativa al riguardo. Al contrario, la gara per le frequenze digitali latita: eppure poteva (potrebbe) portare risorse assai utili all`erario, eventualmente destinandole ad un fondo per il lavoro precario nell`informazione.
Mentre le intenzioni del ministero sembrano nette sulle prospettive della Rai. È bene sottolineare che siamo ad un passaggio storico. Il sessantesimo anniversario della televisione pubblica rischia di coincidere con la sua parabola discendente. Infatti, tra il 2014 e il 2016 scadono in sequenza Convenzione e Concessione del servizio pubblico. Proprio Catricalà ha annunciato, tra stop and go, di immaginare un`asta delle attività attribuite all`azienda. Il cavallo di Troia è il grimaldello inserito nella bozza del nuovo contratto di servizio con lo stato, vale a dire il «bollino blu» che dovrebbe contrassegnare le trasmissioni di servizio nei confronti di quelle commerciali.
Come se esistesse una linea di demarcazione rigida tra i vari format; e come se il varietà, i film o lo sport fossero estranei alle «arti belle». È augurabile che la commissione parlamentare di vigilanza, che sta vagliando in questi giorni il testo, espunga un comma velenoso e crudele. Cui fa da pendant il decreto ministeriale del ministro Zanonato, nel quale si blocca il canone di abbonamento, senza neppure considerare l`incremento dell`inflazione come il contratto di servizio in vigore vorrebbe.
Indizi, indizi, quasi una prova. Sospetto per sospetto, non pare prendere la rincorsa Sky? Forse è all`orizzonte una dedizione del dupolio, questa volta costituito da una Mediaset in fase di corteggiamento del colosso incrinato di Telecom (via Telefonica), e dal trust dell`offerta a pagamento del sempreverde tycoon Murdoch. Con la Rai chiusa nella ridotta dei programmi educativi, essenziali e interessantissimi, ma dentro un perimetro largo e variegato. Per non parlare della chimera dell`Agenda digitale, chiacchiera salottiera piuttosto che strategia produttiva. Insomma, qual è la politica sulle comunicazioni del governo? Se è il braccio delle privatizzazioni, meglio sarebbe passare la mano a chi crede nel pubblico e nei beni comuni.
*l’Unità