“Qualcuno la chiamerà fuga, ma il termine non è adatto. Quello che hanno fatto i sette superstiti del naufragio del 3 ottobre lasciando dopo solo una notte il sovraffollato, promiscuo e disumano centro di accoglienza di Pozzallo, è stato semplicemente riprendersi la propria vita. Riappropriarsi del proprio destino fermato per venti giorni al confine tra Sudan e Libia da un incubo fatto di violenze di ogni genere, stupri e uccisioni indiscriminate; poi dal più terribile dei naufragi del mediterraneo, a poche decine di metri dalle coste italiane di Lampedusa; poi, ancora, dal trattenimento per 101 giorni nel centro di soccorso e prima accoglienza di Lampedusa, che nessun provvedimento giudiziario ha mai motivato ne legittimato. Alla fine si sono liberati da soli”. A scriverlo ad Articolo21 è il Comitato 3 ottobre.
“La loro liberazione era stata chiesta ripetutamente dal Comitato 3 ottobre, che aveva denunciato l’illegittimità del trattamento che il nostro paese ha riservato ai sopravvissuti al naufragio che hanno fortemente voluto aiutare la giustizia italiana a perseguire lo scafista insieme a quel giovane somalo che prima aveva violentato i loro corpi e poi aveva preteso il pagamento di un riscatto di 3300 dollari ognuno per liberarli. Quell’uomo lo hanno ritrovato in un’aula di tribunale e guardandolo in faccia, hanno confermato le loro accuse. Tutti tranne la piccola Fanus, la più fragile di loro che non ce l’ha fatta a sostenere lo sguardo del suo aguzzino. È riuscita a piangere ma non a rivivere e raccontare di nuovo lo stupro subito, come aveva fatto nel primo interrogatorio. Le altre violenze le ha confermate, come gli altri. Le scosse elettriche, le bastonate sotto la pianta dei piedi, le ore trascorse appesi a testa in giù, le intimidazioni continue, le offese, le minacce, la benzina versata sulla testa che bruciava la pelle e gli occhi. Crudeltà che hanno il solo obiettivo della sopraffazione, dell’esercizio di un potere totale, che a quel somalo seduto sorridente al banco degli imputati, potrebbero costare anche trenta anni di carcere.
L’udienza si è svolta il 13 gennaio, giorno di un nuovo inizio, aspettato a lungo a Lampedusa. Meherawi, quando gli avevano comunicato che sarebbero partiti il giorno dodici non faceva che ripeterlo: “giorno dodici partiamo, giorno dodici” e scoppiava a ridere. Lunedì mattina, quando è arrivato al tribunale di Palermo, con un sorriso larghissimo, ha detto “oggi giorno tredici”. Avevano le scarpe nuove tutti quanti, vestiti in ordine come per una festa. Esattamente come hanno fatto ogni volta che sono stati invitati in qualche famiglia di Lampedusa per pranzo, o per natale, o per capodanno, o per un battesimo, dove sono stati il penultimo giorno passato sull’isola. Un giorno importante il giorno tredici, finito con le pacche sulle spalle del pubblico ministero che grazie alla loro testimonianza ha messo in piedi un processo senza precedenti fondato su reati commessi in un paese straniero, processo gestito dall’antimafia di Palermo perché il reato più grave è tratta di esseri umani, di competenza della Dda. Un processo importante che scriverà un pezzo di storia giudiziaria ma che servirà, o meglio che dovrebbe servire, a capire meglio chi sono, cosa hanno passato e da cosa scappano quelli che arrivano dal mare.
“Andate che ora è finita” gli ha detto il pubblico ministero salutandoli. Loro si sono avviati. Sono saliti sul pulmino convinti di andare a Roma e invece gli hanno detto che sarebbero andati a Pozzallo, uno dei centri di accoglienza dalla fama peggiore di tutta la Sicilia, certamente quello con il più alto tasso di denunce di maltrattamenti sporte dai migranti. Un poliziotto impacciato cercava di farli risalire a bordo del pulmino senza riuscirci e voleva convincerli dicendo che a Pozzallo “avrebbero avuto il permesso di soggiorno”. Ma loro quel permesso di soggiorno non l’hanno mai voluto. Ne loro ne gli altri arrivati a Lampedusa. Perché non è qui che vogliono stare, non in questo paese dove l’accoglienza è un concetto astratto, buono per chi vuole fare una buona azione a beneficio esclusivo della propria coscienza, ma che poco ha a che fare con l’inizio di un progetto di vita di chi per sopravvivere ha dovuto abbandonare tutto quello che aveva. È per questo che non vogliono farsi identificare. Se si lasciassero foto segnalare e si lasciassero prendere le impronte digitali sarebbero costretti a restare in Italia. Come stabilisce il regolamento di Dublino secondo cui il paese di approdo è il paese dove i profughi devono chiedere asilo, non possono andare altrove in europa a cercare lavoro, a ricominciare a vivere perché se sono stati identificati in italia è in italia che verrebbero rispediti.
La scelta di andare via, di farsi identificare in un altro paese fatta dai sette superstiti, è la stessa scelta fatta da Khalid, il ragazzo siriano che prima ha denunciato lo scafista poi ha denunciato le docce antiscabbia. Ha chiesto giustizia a gran voce finché si è stancato di gridare e di aspettare. Se ne è andato durante le feste di natale che rendevano ancora più insopportabile quell’isola e il silenzio dei magistrati che volevano si interrogarlo, ma non si sa quando e, in ogni caso, dopo le vacanze.
Ora è in Olanda, tra poco sarà “cittadino olandese” con tutti i diritti ed i doveri che questo comporta, come il rispetto delle leggi e la possibilità di lavorare, di contribuire al benessere proprio e degli altri senza essere costretto all’inattività e al solo imbarazzo di un sussidio generalmente insufficiente per vivere. A marzo a Palermo inizierà il processo e lui andrà a testimoniare, da cittadino olandese con il suo passaporto e la sua dignità.
Fanus e gli altri invece sono in viaggio, o forse sono già arrivati li dove volevano andare, il posto dove sanno di trovare qualcosa da cui poter cominciare di nuovo. E non vogliono neanche più essere chiamati superstiti, perché non è più il momento di sopravvivere questo. Ora, e per tutti loro, è il momento di iniziare a vivere.