di Piero Innocenti
Dopo un periodo, straordinariamente lungo, di anni, di denunce fatte (ma anche di silenzi e negligenze istituzionali) da alcune associazioni e organi di informazione contro lo sfruttamento di lavoratori stranieri nelle campagne italiane, non solo del Sud, finalmente, nell’agosto del 2011, veniva introdotto nella legislazione italiana il delitto di “caporalato”. Con il decreto legge n.138 ( si trattava del provvedimento adottato dal Governo in tema di “manovra finanziaria bis” convertito in legge il 14 settembre successivo), veniva colmata la grave lacuna del nostro ordinamento giuridico. Il delitto di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” (art.603 bis del c.p.) è finalizzato, appunto, alla repressione di tutte quelle situazioni di sfruttamento del lavoro irregolare praticato dagli intermediatori ( nel gergo i “caporali”) in molte aree del paese, in particolare in alcuni periodi dell’anno. Pene pesanti, dunque, con la previsione della reclusione da cinque a otto anni e la multa da mille a due mila per ogni lavoratore “arruolato”, nei confronti di “chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”. Al datore di lavoro si applicano, invece, le norme contenute in un decreto successivo (n.109 del 16 luglio 2012, che ha recepito, con il solito ritardo italiano, la direttiva comunitaria 2009/52/CE) che prevede la reclusione da sei mesi a tre anni e la multa di cinque mila euro per ogni lavoratore irregolare impiegato con l’aumento di pena, da un terzo alla metà, se i lavoratori sono minori in età non lavorativa, se sono sottoposti a condizioni lavorative di particolare sfruttamento ex art. 603 bis del c.p. Con l’entrata in vigore di queste norme, molti si aspettavano una speciale attenzione investigativa in alcuni ambiti territoriali, si era detto, piuttosto estesi e in situazioni lavorative pessime e degradanti. In realtà, secondo le statistiche del Ministero dell’Interno, nel 2012, in tutto il territorio nazionale, sono state soltanto 63 le persone denunciate dalle forze di polizia per la violazione del 603 bis e tra queste 32 sono italiani, 7 marocchini, 5 indiani, 4 rumeni, 2 bulgari, un algerino, un tunisino ed altri di nazionalità non precisata. Le regioni maggiormente interessate sono state la Puglia (14 persone), la Sicilia (10), la Lombardia (9) e la Toscana (7).
Nel 2013 – il dato statistico non è ancora consolidato alla data del 19 gennaio 2014 – le 281 persone segnalate alle varie Procure della Repubblica per il delitto di “caporalato” sembrerebbero evidenziare un’accresciuta attenzione verso il fenomeno. In realtà, se si va a guardare nel dettaglio, si scopre che ben 211 sono quelle denunciate soltanto in Lombardia e di queste 172 (39 italiani e 133 indiani) hanno riguardato Brescia e provincia (si è trattato, in effetti, di un’indagine unica svolta dai Carabinieri con la sezione di p.g. di quella Procura della Repubblica, nel contesto della comunità Sikh, nei settori dell’allevamento e dell’agricoltura e che ha visto il coinvolgimento anche di alcuni imprenditori italiani). Seguono la Puglia con 32, in maggioranza italiani, la Sicilia con 11 persone, la Calabria con 10, il Piemonte con 3, il Veneto con 4 (di cui due a Padova). Zero denunce in Emilia Romagna, in Toscana e in Trentino Alto Adige. Insomma, se, come credo, sono numeri modesti rispetto alle reali dimensioni della situazione di “caporalato” nel nostro paese, c’è da chiedersi che cosa freni il più volte auspicato slancio investigativo delle diverse forze di polizia statali e locali sul territorio nazionale. Priorità data ad altre forme di criminalità? Scarsità di risorse umane? Sottovalutazione del fenomeno? E’ possibile che entrino in gioco tutte queste considerazioni e, tuttavia, prima di tornare a vedere in televisione le immagini passate di recente (la scorsa estate) di vergognoso sfruttamento di braccianti neri pagati quattro soldi, in situazioni alloggiative degradanti e insicure, sarebbe un bel segnale quello di una maggiore sensibilità istituzionale verso questo fenomeno ancora “invisibile” per molti.