Quando è passata da poco l’una, anche i numeri si fermano. Come succede in una partita di scala quaranta quando uno dei giocatori chiude: si da forfait. Non c’è più partita. Non c’è storia. Matteo Renzi è il nuovo segretario del Partito Democratico. Per la prima volta un ex democristiano siede sulla poltrona più alta che un tempo fu di Palmiro Togliatti e poi di Enrico Berlinguer. Sì, questo non va dimenticato. Perché è vero che il Pd è un partito nuovo, ma è pur vero che il percorso è stato voluto soprattutto dal Pci che divenne Pds poi Ds che alla fine, come componente di maggioranza, ha dato vita insieme alla Margherita al Partito Democratico. All’unico erede di quella storia tra i candidati alla segreteria, Gianni Cuperlo, un misero 18%.
Per assurdo è andata meglio a Pippo Civati, l’outsider, che arriva ad un 14,2%, un risultato inferiore. Ma ha proposto, Civati, l’ipotesi di un nuovo progetto di sinistra che ha permesso al giovane che alla prima svolta di Occhetto aveva solo 14 anni, di ottenere importanti consensi in regioni come la sua Lombardia, il Piemonte, il Veneto, il Trentino, la Liguria e la Valle d’Aosta. Al nord e al nord est la sua è la seconda proposta politica in quei territori dove i consensi del sindaco di Firenze restano sopra il 50% ma non sono bulgari. Un risultato, poi, che risulta ancora più apprezzabile poiché è l’unico che ha fatto davvero a meno della “dirigenza” del partito che ha scelto Cuperlo oppure è salita per tempo sul carro del vincitore.
Non è forse un caso che Matteo Renzi vinca nelle regioni rosse dove ottiene percentuali sopra al 75%: Toscana, Umbria, Marche e poi al 72% in Emilia Romagna. Cuperlo supera il 30% in Basilicata e Calabria, quasi lo raggiunge in Campania e in Sicilia, intorno al 25% in Puglia e in Sardegna ma precipitando al 10% nelle Marche, al 15% in Emilia Romagna e in Umbria, all’11% in Toscana.
Ora il partito cambia verso. Un ex democristiano è alla guida del partito e un altro ex democristiano alla guida del governo. Renzi dice che non sarà la fine della sinistra ma quella di un gruppo dirigente. Su questo c’è da credergli. Una classe dirigente che è stata sempre di provenienza Ds. Lo è stato Fassino, poi Veltroni e poi Bersani. Sullo sfondo anche D’Alema che congedò Prodi per ottenere per la prima volta la presidenza del Consiglio come ex comunista. E gli errori di quella classe dirigente, di provenienza Pci-Pds-Ds sono stati talmente grandi che il partito, pur di sopravvivere, si è spostato da un’altra parte. E lo ha fatto proprio a partire da quelle che erano da sempre le regioni rosse.
Il partito cambia verso. Lo si è visto anche dentro al Nazareno, piccola copia di quel Bottegone che riusciva a contenere un grande partito che ora non c’è più. Per la prima volta nessuno è passato lì per festeggiare o per esprimere la sua delusione. Come se tutti, in ogni caso, volessero prendere le distanze dal “palazzo”. Dentro il Nazareno sono rimasti solo Davide Zoggia e il segretario traghettatore Guglielmo Epifani. C’è aria di rottamazione, insomma. E tra poco arriverà Matteo Giulio Cesare. Superando l’Arno dirà alea jacta est. Alla testa di un esercito di elettori proverà a rinnovare. La traduzione corretta fedele alla lingua greca della versione di Svetonio sarebbe “sia lanciato il dado”, ovvero “cominci l’azione, l’impresa”. E sarà un’impresa. Basta che, come allora, non si trasformi nel principio della fine. Promette collegialità, Renzi. Dovrà giocare una partita difficile: stare al governo ottenendo risultati senza perdere consensi e conservare così i voti necessari per battere il centro destra. Avrà un partito facile da governare per i numeri in suo possesso ma la cui unità sembra per ora frutto di unanimismo. Dall’altra parte ha un Berlusconi agguerrito e un centrodestra che, dividendosi, è ormai sia partito di lotta che di governo. Un’impresa ardua. Auguri.