Mentre l’escalation del conflitto continua, la giustizia internazionale rischia di scoprirsi impotente. E potrebbe essere Juba a pagare le conseguenze del ‘caso Kenyatta’.
di Davide Maggiore
In Sud Sudan l’orlo del “precipizio” potrebbe già essere stato superato: a usare questa espressione era stato negli scorsi giorni Barack Obama, e proprio l’attacco ad un aereo americano inviato nell’area per evacuare cittadini statunitensi ha confermato i suoi peggiori timori. L’aereo è stato colpito nei pressi di Bor, città che i ribelli fedeli all’ex vicepresidente Riek Machar hanno dichiarato di controllare; secondo quanto affermato da James Copnall, ex corrispondente della BBC in Sudan che è in contatto con Machar, è probabile che siano state proprio le forze di quest’ultimo ad aprire il fuoco contro il velivolo, ferendo quattro militari di Washington. Secondo le informazioni che arrivano dal terreno, però, a prendere Bor sono state le truppe del generale Peter Gadet, ‘signore della guerra’ già noto in passato per aver più volte cambiato bandiera, e i cui scopi potrebbero non coincidere fino in fondo con quelli dell’ex vicepresidente.
Di certo Machar, che aveva negato di voler condurre un colpo di Stato contro il governo di Juba guidato da Salva Kiir, sta cominciando a scoprire le sue carte: i ribelli, ha detto alla stessa BBC, sono sotto il suo comando e hanno anche preso il controllo dello Stato di Unity, al confine con il territorio nord-sudanese e ricco di giacimenti petroliferi. Mentre il quadro si complica, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha rinnovato il suo appello ai leader locali perché trovino “strumenti politici” per risolvere il conflitto. “Le fratture vanno ricomposte per il bene del paese”, ha sostenuto, in un colloquio con l’agenzia MISNA, anche l’arcivescovo di Juba, mons. Paulino Lukudu Loro, ricordando che i sud-sudanesi “hanno pagato un tributo di sangue fin troppo alto per la loro indipendenza e adesso desiderano vivere in pace”. Pace turbata da violenze che, ha affermato con decisione l’arcivescovo, “non sono frutto di rivalità etniche ma di una spaccatura politica”.
Proprio la comunità internazionale, però, rischia di trovarsi sprovvista di uno dei suoi strumenti potenzialmente più efficaci per risolvere questa crisi: le istituzioni giudiziarie e in particolare la Corte Penale Internazionale. In condizioni normali, la prospettiva di un’incriminazione davanti ai giudici dell’Aja avrebbe potuto rappresentare uno strumento forte di pressione sui contendenti. Ma dopo gli ultimi sviluppi del ‘caso Kenyatta’, la cosa si fa più incerta. Proprio nei giorni in cui scoppiava la crisi a Juba, infatti, la procuratrice generale della Corte, Fatou Bensouda, ha chiesto un aggiornamento del processo, per mancanza di tutte le prove necessarie a istruirlo. Una situazione che si è venuta a creare dopo il ritiro – non il primo – di due testimoni che avrebbero dovuto fornire elementi d’accusa contro l’attuale presidente kenyano.
Nei mesi scorsi, diversi media avevano espresso il sospetto che, dietro le ritrattazioni, ci fossero i tentativi delle autorità di Nairobi di evitare uno storico e clamoroso verdetto contro Kenyatta e il suo vice William Ruto. Contro il processo, come è noto, si era schierata anche l’Unione Africana, con in prima fila, secondo molti commentatori, il presidente ugandese Museveni. Le accuse di “caccia razziale” lanciate contro i magistrati dal premier etiope Desalegn avevano fornito ulteriori argomenti ai critici della corte, che si era trovata dunque al centro di una tempesta internazionale, con la minaccia di un’uscita in massa (poi evitata) dai parte dei Paesi africani. Che però, ora, potrebbero essere paradossalmente i primi a pagare il prezzo per la diminuzione di autorevolezza dei magistrati dell’Aja.
In gioco non c’è infatti solo il diritto – fondamentale e preponderante – delle popolazioni del Sud Sudan a evitare qualsiasi tipo di abuso nei loro confronti, ma anche la preoccupazione ‘politica’ delle nazioni confinanti per la stabilità regionale: e in prima fila ci sono proprio Kenya e Uganda. I due Paesi, secondo dati della Comunità dell’Africa Orientale, hanno più che quadruplicato il loro export verso le regioni che oggi costituiscono il Sud Sudan. E la crisi in corso a Juba sta già facendo sentire i suoi effetti sul commercio, scrive – con abbondanza di numeri – il settimanale ‘The East African’.
Senza lo strumento giudiziario, e volendo evitare un’escalation militare in una regione che già ospita forti contingenti internazionali, le speranze di pace restano legate alla disponibilità – per ora solo verbale – dei contendenti a un dialogo. A farlo cominciare potrebbe essere anche l’interesse, per una volta convergente, di due grandi protagonisti della scena mondiale, Usa e Cina, entrambe interessate al petrolio, che è quasi l’unica risorsa oggi sfruttata dal Sud Sudan. Ma gli accordi fondati sull’interesse rischiano – per definizione – di essere solo provvisori.