Si sono cuciti la bocca per gridare più forte. Per costringere la stampa distratta, i politici presi dalle loro beghe interne, il governo impegnato nella legge di stabilità di ricordarsi di loro: incarcerati in un non-carcere, senza diritti, senza una pena da scontare e quindi anche senza un fine pena, alla ricerca di un futuro e di una speranza. È successo nel CIE di Ponte Galeria vicino a Roma a pochi giorni dal video diffuso dal Tg2 sui trattamenti umilianti e indegni di un paese civile del centro di accoglienza (sic!) di Lampedusa. Hanno raccolto tutta la loro disperazione e hanno usato il loro corpo per fare giungere il loro grido oltre le sbarre e i muri delle non-prigioni per gli stranieri non comunitari. Hanno cominciato in quattro, poi se ne sono aggiunti altri cinque e poi ancora un altro. Hanno scelto le forme di protesta più diffuse in carcere: lo sciopero della fame e l’autolesionismo per chiedere rispetto e diritti.
Finalmente i media si occupano di loro: “protesta choc” titolano. E si ricomincia a parlare della Bossi-Fini, del reato di clandestinità, delle leggi che affrontano la questione immigrazione solo in termini di sicurezza, naturalmente nostra.
Quelle bocche cucite, quelle labbra ferite, quella disperazione senza voce interpellano i media. Quelle labbra sigillate con il filo ci chiedono di essere noi la loro voce, di raccontare le condizioni di vita nel paese che li “accoglie”, di far conoscere le loro storie, i loro sogni, i loro affetti, le famiglie che cercano di raggiungere, i cari che hanno lasciato nel loro paese, la speranza che li ha portati qui uguale alla speranza di tanti italiani partiti per l’America o per la Francia, il Belgio, la Germania, le guerre che si combattono nell’indifferenza del mondo. Ci chiedono di rimettere al centro dell’attenzione la legge sull’immigrazione, ma anche la realtà dei migranti che vivono in Italia, che lavorano, i cui figli sono in classe con i nostri. Di non scordarci di guardare cosa succede oltre i muri dei CIE, dei CARA, dei Centri di accoglienza nelle nostre terre frontiera.
Illuminare le periferie vuol dire proprio questo. Dare voce a chi non ha voce, prima che si cucia le labbra o salga su una gru o si chiuda in una miniera per uscire dall’invisibilità cui troppo spesso li condanniamo. Di non aspettare la strage dei migranti la protesta choc, ma di intercettare il malessere, le violazioni dei diritti, i cambiamenti in atto prima. Di chiedere – come fa l’associazione “LasciateCIE entrare” – il diritto di cronaca anche nei luoghi da cui la stampa è tenuta fuori, come i CIE, i CARA, i Centri di Accoglienza. Ma illuminare le periferie vuol dire anche sorvegliare perché chi ha denunciato e chi ha protestato ferendo il suo corpo non si ritrovi a dover pagare anche per questo.