C’è un muro di silenzio che avvolge tutto ciò che riguarda la questione palestinese. Agisce a doppio senso: nasconde quel che concerne la Palestina ed i palestinesi mentre quel che attiene a Israele lo offusca o lo deforma, a seconda dei casi. Per effetto della sua azione è andata accreditandosi presso l’opinione pubblica la falsa, anzi falsissima idea di Israele, come unica democrazia del Medio Oriente assediata da milioni di minacciosi arabi ostili e dei palestinesi come di un popolo di pericolosi terroristi o di vittime imbelli.
Il muro è poderoso. E’ costituito dai maggiori e più seguiti media di ogni tipo. Sicché per informarmi su quello che accade davvero ai palestinesi di Gaza, della Cisgiordania e di Israele non mi resta che ricorrere, per quel che riguarda l’informazione su carta, a il manifesto, che sin dai suoi primordi si è caratterizzato per un servizio esteri di piccole dimensioni ma di alta qualità, all’agenzia settimanale Adista e al mensile l’Atra Pagina; per quel riguarda le radio, oltre a qualche rarissima trasmissione di Radio3 Mondo, a radio libere quali Radio Onda Rossa, Radio Città Aperta e Radio Popolare; per quel che riguarda il web, a Nena News e a Invisible Arabs, nonché alle corrispondenze di Rosa Schiano da Gaza ed alle testimonianze dirette di chi ha scelto di vivere a Gaza per dividere con i gazawi la durezza della vita sotto assedio. E poi ai resoconti degli attivisti e delle attiviste che si recano in quelle terre di passione e sofferenza.
Valorizzando queste fonti di informazione qualche incrinatura nel muro di silenzio si riesce ogni tanto a produrla. E di incrinatura in incrinatura – almeno si spera – prima o poi, come avviene per le lesioni nei muraglioni delle dighe, il muro di silenzio almeno in parte crollerà ed una informazione corretta e veritiera potrà finalmente dilagare. Ma per ora il muro resiste e proprio di recente, in occasione di tre avvenimenti romani, ha funzionato egregiamente: a proposito del vertice italo-israeliano del 2 dicembre, della celebrazione della giornata dei diritti del popolo palestinese organizzata dall’Ambasciata Palestinese in Italia nella Sala della Protomoteca del Campidoglio il 4 dicembre, e della presentazione il 5 dicembre della sentenza a carico di Israele del Tribunale dei Diritti dei Popoli avvenuta nella Sala delle Bandiere del Consiglio Europeo.
Dell’incontro bilaterale Italia-Israele si era avuta notizia da un lancio di agenzia che riportava la dichiarazione rilasciata in proposito dal primo ministro Letta: <Sarà un incontro importante perché cercheremo di finalizzare accordi già in essere sulle università e sulle questioni relative alla tecnologia e all’energia>. Da un altro lancio di agenzia si è saputo che i settori interessati dagli accordi sarebbero stati quelli delle energie rinnovabili, dell’aerospazio, della ciber security, delle infrastrutture, della sanità/biomedicale e del expo 2015. Poi più niente. Con la sola eccezione di il manifesto, che il 29 novembre vi ha dedicato un’intera pagina, non una riga è apparsa sui maggiori quotidiani italiani e su l’unità prima del suo verificarsi. Il 3 dicembre, quando Netanyahu era già partito, finalmente se ne è scritto qualcosa, soffermandosi però più sull’incontro con il papa e sulla eventualità di un suo viaggio a Gerusalemme nel prossimo mese di maggio, che sull’incontro con Letta. A proposito del quale si sono sottolineate le reciproche attestazioni di grande amicizia e la identità di vedute su tutti gli argomenti trattati ad eccezione del nucleare iraniano, che Netanyahu fortemente avversa, mentre l’Italia si è allineata alla posizione europea. Non una parola critica sulle trattative tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese che Netanyahu fa finta di condurre proseguendo imperterrito a moltiplicare gli insediamenti e ad abbattere le case dei palestinesi. Non una parola sul contenuto degli accordi firmati. Così non si sa se gli accordi commerciali escludono le merci fabbricate all’interno delle “colonie”, come dovrebbe essere in coerenza con le Linee Guida approvate dall’Unione Europea nello scorso giugno, o si è in presenza di una violazione. Non si hanno notizie precise circa la collaborazione nel campo della ricerca tecnologica e lo scambio commerciale; cioè due settori particolarmente critici, perché la ricerca tecnologica riguarda anche le tecnologie per la sicurezza e lo scambio commerciale comprende anche il commercio di armi, proprio i mezzi impiegati da Israele per tenere sotto occupazione la Cisgiordania e sotto assedio Gazza. Per di più la fornitura di armi ad Israele avviene in dispregio della normativa vigente. La legge del 9 luglio 1990, n. 185, ne vieta infatti la fornitura a paesi in stato di guerra, e non vi possono essere dubbi che sia questo il caso di Israele che occupa dal 1967 i territori invasi con la guerra.
Potrebbero essere queste alcune delle ragioni del silenzio stampa, di cui, in questo caso, è in primo luogo responsabile il governo che non fornisce notizie; ma lo sono non meno i media, gli operatori della informazione che non indagando su materie così importanti e delicate concorrono a tenere in piedi il muro del silenzio.
Sotto la sua coltre sono totalmente scomparsi gli altri due avvenimenti indicati prima.
Eppure sono stati importanti, perché i fatti hanno una loro forza intrinseca, anche quando non c’è la notizia.
La sera del 4 dicembre nella Sala della Protomoteca sono risuonate parole autorevoli ed estremamente severe nei confronti dello stato israeliano e delle sue politiche. Sono state quelle del messaggio del Segretario Generale delle Nazioni Unite, la cui durezza non era attenuata dal garbo del linguaggio diplomatico. Letto dal responsabile dell’Ufficio Informazioni ONU per l’Europa Occidentale, Fabio Graziosi, è apparso in consonanza, quasi una risposta positiva, con l’appassionata rivendicazione dei diritti del popolo palestinese pronunciata con grande fermezza e dignità dall’ambasciatrice palestinese.
Parimenti forti ed importanti sono state le parole pronunciate il 5 dicembre nella Sala delle Bandiere del Parlamento Europeo: quelle di Pierre Galand che ha illustrato la sentenza con la quale il Tribunale dei Diritti dei Popoli ha riconosciuto come Israele abbia instaurato un regime di apartheid ed ha dichiarato illegale lo stato israeliano per le innumerevoli infrazioni del diritto internazionale in cui sistematicamente incorre. Nello stesso procedimento il Tribunale ha simbolicamente processato in contumacia – ponendo 27 sedie vuote di fronte alla giuria – per complicità con Israele i 27 paesi dell’Unione Europea, che si sono rifiutati di essere presenti al giudizio pur riconoscendone l’alto valore morale.
Sono state importanti e vibranti le parole, lette da Moni Ovadia, della dichiarazione di Robben Island, per “La liberazione di Marwan Barghouti e tutti i prigionieri palestinesi”, lanciata dalla cella che fu della prigionia di Nelson Mandela.
Come sono state importanti tutte le parole dette da Gianni Tognoni, che ha coordinato i lavori, da Nurit Peled, El Hanan, Leila Shahi, Luisa Morgantini, May Kayli, ambasciatrice palestinese in Italia, Manal Tamini del Comitato Popolare di Nabi Saleh in Palestina, che si sono avvicendate al microfono di fronte ad un uditorio commosso e determinato.
Non si è trattato di parole senza conseguenze, perché espressioni di atti concreti, di processi ormai in atto, di una resistenza eroica, che il silenzio dei media può nascondere, ma non fermare. A questo proposito è inevitabile il richiamo ad un celebre monito di Bertrand Russel dal quale costruttori e manutentori del muro di silenzio dovrebbero sentirsi interpellati: “il silenzio sui crimini è esso stesso un crimine”. E crimini del genere possono sfuggire dal giudizio dei tribunali ma non da quello delle coscienze libere.