BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Non c’è pace in Darfur, rimasto nell’ombra nel 2013. E nel 2014 si annunciano nuovi massacri

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“Il 2014 sarà quello decisivo per la lotta contro i gruppi ribelli in Sudan”. Parola di Omar Hassan al Bashir, presidente sudanese su cui pende un mandato di arresto per genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità per i massacri compiuti in Darfur.  E c’è da prenderlo sul serio visti i precedenti e la campagna di bombardamenti in corso in Sud Kordofan. Lui stesso, in un comizio tenuto nel villaggio di al Qadarif nelle scorse settimane, ha affermato di voler sconfiggere l’opposizione armata prima delle prossime elezioni politiche dell’aprile 2015. E farà di tutto per mantenere questo proposito. Oltre dieci, a febbraio 11, anni di conflitto sono una spina nel fianco anche per il regime più duro.

L’Onu ha definito quella in corso nella regione occidentale del Sudan come la peggiore crisi umanitaria del mondo, la Corte penale internazionale, nonché il Dipartimento di Stato americano, lo ha classificato come genocidio. L’Aja è poi andata oltre e ha accusato il presidente Bashir di aver architettato con l’aiuto di sanguinarie milizie arabe, i janjaweed – letteralmente ‘diavoli a cavallo’ – un piano criminale per distruggere la popolazione darfura.
E la distruzione e gli attacchi continuano nell’indifferenza dei media, dal Darfur arrivano poche drammatiche notizie. La situazione si aggrava di giorno in giorno. Si susseguono segnalazioni di attacchi ai villaggi dell’area ad est di Nyala, capitale del Sud Darfur e al nord di Al Fasher. L’unica fonte che aggiorna costantemente sul conflitto in Darfur, Radio Dabanga, ha diffuso domenica scorsa la notizia che una quarantina di persone erano state uccise e 12mila costrette alla fuga dal villaggio nei dintorni di Zalingei, a seguito degli attacchi sferrati da miliziani arabi. Quello che i media non dicono, o forse che non sanno, è che gli eccidi sono stati perpetrati in molti altri villaggi, attaccati dalle spietate milizie che non si ‘limitano’ a incendiare case e rubare bestiame.
Insomma queste ennesime violenze si stanno consumando nell’indifferenza di tutti. E gli organi di informazione, distratti da altre notizie, come il rischio di una nuova guerra civile in Sud Sudan, tacciono negando ogni diritto all’informazione su una tragedia che sembra destinata a non trovare fine.

Nonostante ci siano le condizioni per un intervento risolutore che fermi questo massacro, la comunità internazionale non è riuscita a imporre la norma della responsabilità di proteggere.
Tuttavia, il Darfur non può e NON DEVE essere risolto militarmente, anche se i costi umani ed economici di questa guerra sono terribili, al di là dell’immaginabile. Oltre 300 mila vittime e due milioni di sfollati.
Le prime risposte regionali al conflitto e gli interventi umanitari risalgono al 2004, tuttavia nulla finora è riuscito a porre fine alla crisi.
E’ dunque evidente che è compito della comunità internazionale, e di tutti gli attori interessati, rivedere approcci e strategie ed elaborare un metodo olistico e audace per porre fine alla sofferenza umana e ristabilire la pace e la sicurezza nella regione.

Il Darfur è un fattore chiave per la stabilità del paese e dell’area regionale nel suo complesso.  Donne e uomini darfuriani, il 45 per cento della popolazione del Sudan, chiedono che la crisi sia risolta nel contesto di un più ampio programma di cambiamento strutturale e democratico del Paese.
Non sono più interessati, e a dire il vero non lo sono mai stati, al semplice intervento umanitario e alla protezione della missione Unamid, dispiegata per garantire la sicurezza del territorio e facilitare la ripresa dei negoziati di pace.
Ma l’esperienza di questi lunghi dieci anni manifesta chiaramente che una soluzione pacifica e negoziata non sia realizzabile sotto l’attuale regime.

Il 2014 deve essere l’anno della svolta. La comunità internazionale deve pretendere dal partito di maggioranza del Paese, il National congress party, che Bashir mantenga la promessa di non ricandidarsi alla presidenza del Sudan e che personaggi come lui, se davvero si vuole mostrare un volto nuovo e rimuovere l’etichetta di ‘regime’, non abbiano più la possibilità di guidare il Paese.
Nello spirito di un nuovo inizio, è inoltre imperativo che i movimenti ribelli sospendano la contrapposizione armata e valutino tutti gli elementi che connotano la loro causa per poi porsi e rispondere a una sola, fondamentale, domanda: dopo oltre dieci anni di conflitto e di sofferenza, qual è il fine ultimo della lotta del popolo del Darfur?
I due milioni di sfollati che ancor oggi sono ospitati nei campi profughi, gestiti dall’Onu, non vogliono continuare a vivere un’esistenza al limite della sopravvivenza. Non sono più disposti a subire il caos e le conseguenze di una guerra senza fine.

Solo un cambiamento strutturale e democratico, che riveda e ridistribuisca equamente il potere e la ricchezza del paese tra tutti i suoi popoli, tra cui le maggioranza emarginate, potrà garantire un futuro diverso al Sudan.
Questa è l’unica strada per giungere all’unita, democratica e stabile, del Paese.


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