‘Na tazzulella e’ café “, cantava Pino Daniele qualche anno fa. E’ il regalo fatto ai cittadini italiani dal ministero dello sviluppo, tenendo bloccato il canone rai. Secondo la normativa vigente la tassa sul possesso della televisione viene determinata ogni anno dal governo sulla base di due indicatori precisi: l’incremento dell’inflazione e l’evoluzione tecnologica. Se il secondo dato poco sembra rilevare per un esecutivo assai fumoso sulle agende digitali, la percentuale inflattiva non e’ un’opinione. Forse, però, la matematica e’ un’opinione. Di che si tratta? L’aumento sarebbe stato di circa un euro e venti centesimi, poco più -appunto- di un caffè. Ma almeno 24 milioni di euro per il servizio pubblico. Ecco, e’ proprio sul carattere del servizio pubblico che è in corso una sorda battaglia culturale, oltre che politica. Da una parte chi vuole lavorare per una Rai dei cittadini, bene comune della e nella società dell’informazione. Come suggeriscono “Articolo 21″(che ha lanciato l’idea della riscrittura di massa della missione pubblica) e “Move on”. Dall’altra, chi ritiene che sia il tempo di un’asta al miglior offerente sulle parti redditizie dell’azienda. Del resto, il curioso decreto ministeriale (non una legge) che definisce l’ammontare del canone del 2014 rinvia al nuovo contratto di servizio in discussione presso la commissione parlamentare di vigilanza e parla di non meglio precisati ridimensionamenti della Rai. Ne fa chiaro cenno il bell’articolo dell’ex consigliere di amministrazione Nino Rizzo Nervo, pubblicato da “Europa” lo scorso 24 dicembre. E già. L’attuale testo del contratto di servizio, che rischia di entrare in vigore a tempo scaduto, mette mano in maniera rozza e sgradevole al ruolo pubblico, con la trovata del “bollino blu” con cui segnalare le trasmissioni di qualità, dividendo queste ultime da quelle commerciali. Vale a dire i prolegomeni della privatizzazione. Il tutto si capisce meglio se si fa riferimento all’imminente scadenza della concessione dello stato, il 2016. Non e’ fuori luogo, allora, pensar male. Il mancato ritocco del canone non e’ il nobile frutto della volontà di non pesare ulteriormente sulla martoriata società italiana. Magari. Se così fosse stato il governo avrebbe potuto agire sulle due leve della lotta all’evasione (500 milioni, pare) e dell’esclusione dal pagamento dei settori meno abbienti. Si erano immaginate proposte concrete: dall’inserimento nella bolletta della luce del canone, alla radicale riforma della tassazione, inserendola nella dichiarazione dei redditi. Quindi, con entità variabili in base al reddito. Ha senso che un pensionato al minimo paghi lo stesso di coloro che hanno risorse e patrimoni? Niente di tutto questo. La verità e’ che la Rai e’ terreno di caccia di interessi forti. E da un bel po’ sembra cominciata la danza funebre attorno alle spoglie del famoso cavallo. E’ un rito pericoloso per la democrazia e ridicolo per lo stesso capitalismo cognitivo: chi è interessato all’acquisto della vecchia radiotelevisione generalista?L’affidamento pubblico di una parte significativa della comunicazione e’ un antidoto rispetto al luddismo liberista e la premessa per una nuova politica culturale. Certo, la Rai oggi non ha un alto gradimento e il suo apparato va liberato dai condizionamenti politici, economici e lobbistici. Ma l’era digitale senza una visione e un polo pubblici nasce male e indebolita. Insomma, per una volta un piccolo aumento mancato può essere foriero di parecchi danni collaterali. “Timeo Danaos et dona ferentes”, diceva Laocoonte nell’Eneide. E, nel nostro piccolo, aggiungiamo anche noi la stessa invettiva.
Per fugare rischi e dubbi, allora, si cambi profondamente il testo del contratto di servizio, allineandolo alla recente dichiarazione di principi dell’unione europea delle radiodiffusioni. O il caso dell’ente radiotelevisivo greco -chiuso e riaperto dopo un forte ridimensionamento- e’ la brutale via scelta dai poteri finanziari dell’Europa di oggi? Se ne parlerà nella prossima campagna elettorale?
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