L’élite politica di Juba ricorre alle armi per risolvere i suoi contrasti: uno scenario già visto durante la guerra civile. Storia di una rivalità mai terminata, con in palio il potere.
di Davide Maggiore
Salva Kiir ha smesso gli abiti civili ed è tornato ad indossare la divisa. L’immagine del primo presidente sud-sudanese con il berretto grigioverde invece del consueto cappello texano dono dell’ex capo di Stato americano G. W. Bush è la più emblematica per cercare di spiegare gli avvenimenti – ancora per molti versi oscuri – di questi giorni a Juba. Per ora è certo che, a due anni e mezzo dall’indipendenza, le armi sono tornate ad essere l’argomento politico più forte nella capitale del più giovane Stato del mondo.
Gli scontri cominciati domenica notte tra gruppi di militari ammutinati e le truppe rimaste fedeli al governo hanno provocato, secondo fonti locali, tra i 400 e i 500 morti. per il governo, si sarebbe trattato di un tentativo di colpo di Stato voluto da Riek Machar, già vice-presidente del Paese, che aveva però perso questa carica a luglio, con la nomina di un nuovo governo voluta da Kiir in persona. Il presunto ispiratore del golpe è sfuggito all’arresto, che invece ha riguardato altri ex dirigenti del partito al potere, lo SPLM: tra loro l’ex segretario generale Pagan Amum, l’ex ministro degli Interni Gier Chuang e l’ex responsabile della Sicurezza nazionale Oyai Deng Ajak.
“Non ho nessun legame con, né sono a conoscenza di, tentativi di colpo di Stato” ha detto Machar, parlando con il ‘Sudan Tribune’ dalla località ancora segreta dove si è rifugiato, formulando poi l’ipotesi che quanto successo a Juba sia dovuto a “un’incomprensione tra le guardie presidenziali”. L’ex-vice presidente ha però definito “illegittimo” l’attuale capo dello Stato, da lui ripetutamente accusato di una deriva autoritaria. L’accusa che Machar muove a Kiir è quella di gridare al golpe in modo da poter avere il pieno controllo del partito e del governo in vista delle elezioni del 2015, a cui proprio Machar aveva annunciato la sua candidatura poco prima di essere estromesso dalle stanze del potere.
L’ex vicepresidente non è nuovo a dissidi con la leadership di quello che è stato il movimento di liberazione sud-sudanese. Negli anni ’90 non esitò ad opporsi al suo leader carismatico, John Garang, e a firmare un accordo di pace con il presidente dell’allora Sudan unito, Omar al-Bashir, tornando sui suoi passi solo nel 2002. Il rapporto con Kiir, succeduto a Garang dopo la misteriosa morte di questi in un incidente aereo del 2005, si è rivelato altrettanto complicato e gli ultimi avvenimenti hanno mostrato che, mentre gli scontri si stanno estendendo anche ad altre parti del Paese, la contesa per l’eredità politica di Garang è ancora aperta.
Il dissidio ha coinvolto anche i familiari del vecchio leader: la vedova Rebecca – riferiscono i mezzi di comunicazione locali – è tra gli accusati del tentato golpe, ma Kiir esita a chiederne l’arresto. Lei, da parte sua, accusa il presidente di aver instaurato “una dittatura” e creato le circostanze “per poter fare ciò che sta facendo ora”. Il figlio di Garang e Rebecca, Mabior, ha invece imputato a Kiir un tentativo di pulizia etnica, anche se ha evitato di pronunciare queste precise parole. “Cittadini sud-sudanesi innocenti vengono presi di mira solo per il fatto di essere Nuer, e questo viene fatto per ordine del presidente”, ha detto Mabior. I Nuer sono l’etnia a cui appartiene Machar, mentre Kiir è un Dinka, così come lo era Garang.
Se qualcosa accomuna i leader delle fazioni in lotta, però, è l’escludere, almeno a parole, che la questione abbia dei risvolti legati alle comunità di appartenenza. In effetti, sia la famiglia Garang che i portavoce del partito di governo hanno notato come non tutti gli accusati di complotto contro Kiir siano Nuer. E anche i leader religiosi sud-sudanesi, in un messaggio, sottolineano come ci sia “un problema politico all’interno dell’SPLM, che non andrebbe trasformato in uno scontro etnico”. Questa tendenza, che sta già diventando realtà sul terreno, prosegue il messaggio “va fermata prima che sia troppo tardi”.
Il rischio è che si arrivi a quella resa dei conti per il potere già temuta da molti osservatori in estate, ma è prematuro, per ora, dire cosa gli eventi di Juba significheranno sul piano regionale, o chi potrebbe beneficiarne. Il Sud Sudan è il crocevia di molte questioni economiche e strategiche: dalla corsa al petrolio africano (che interessa l’Occidente quanto gli emergenti BRICS) alla partita energetica e agricola che si gioca intorno alle acque del Nilo, rilevanti praticamente per tutti i Paesi dell’Africa orientale tra i grandi laghi e il Cairo. Senza contare che se il Sud Sudan dovesse collassare, all’arco di instabilità che va dal Sahel a Mogadiscio passando per il Centrafrica – con tutto quel che ne consegue in termini di circolazione di armi e combattenti senza legge – si aggiungerebbe una nuova componente non da poco.