Quella del giornalista è una professione bellissima che fa della scrittura, dell’inchiesta, della verità, il suo pane quotidiano. Purtroppo, però, il rovescio della medaglia è sempre più spesso amaro e pieno di incognite, non solo da un punto di vista economico, soprattutto nel nostro Paese.
In Italia, infatti, un giornalista non ha praticamente protezione e il suo grado di vulnerabilità è inversamente proporzionale al suo grado di precarietà: leggi magmatiche, norme indefinite, assenza di copertura legale, compensi vergognosi, fanno si che professionisti regolarmente contrattualizzati, ma soprattutto freelance e con contratti atipici in genere, siano sotto continuo ricatto perché a rischio di querele temerarie.
Per un giornalista precario che lavora per una piccola testata, per una pubblicazione locale, per un giornale on line, o che, come accade sempre più spesso, scrive per quotidiani anche grandi, con partita IVA a tre, quattro, cinque euro a pezzo, è economicamente ed emotivamente faticoso affrontare l’iter di azioni legali promosse contro di lui da personaggi (malavitosi, politici, imprenditori) tirati in ballo in un articolo, in una inchiesta o in un libro, e che chiedono decine di migliaia di euro di risarcimento. Anche se sa di non aver commesso nessun reato, dovrà comunque difendersi nei tribunali: pagare un avvocato, investigatori, periti e sostenere spese altissime per arrivare infine alla sentenza (si spera) di assoluzione. E questo, in moltissimi casi, per tre lunghissimi e costosissimi gradi di giudizio. Chi glielo fa fare? Mi piace pensare, la passione per la verità e una testarda voglia di legalità e giustizia.
Caratteristiche che non mancano a Rino Giacalone, giornalista siciliano che, intervenuto al Forum Di Assisi del 13, 14 e 15 dicembre, ha raccontato di essere stato condannato in primo grado a pagare 25mila euro di risarcimento per aver scritto che un sindaco della sua zona, nel definire l’antimafia, aveva usato le stesse parole del boss Messina Denaro. “A Trapani – ha dichiarato -, dove la mafia controlla l’economia e la politica, immaginatevi cosa significhi fare il giornalista. Io vorrei avere semplicemente la possibilità di raccontare i fatti, ma nella mia zona, la telefonata che ti arriva dopo aver scritto un articolo su un boss della mafia, è quella, magari, del prefetto che ti chiede spiegazioni. Quindi – ha detto Giacalone – siamo in un contesto dove l’intimidazione non ti arriva soltanto dalla malavita ma anche dalle istituzioni”.
La situazione è gravissima, eppure il Parlamento non si decide a fare quella legge contro le querele temerarie, tanto sbandierata dopo il caso Sallusti, di cui la nostra democrazia ha bisogno. Non si decide a risolvere l’annoso problema del conflitto di interessi, a produrre norme a difesa della libertà di stampa e di pensiero come prevede l’articolo 21 della Costituzione, ad adottare anche in Italia il “Freedom of information act”, ovvero la possibilità per i giornalisti di avere accesso a documenti riservati e coperti da segreto di Stato.
Restiamo un paese a libertà limitata: i disegni di legge presentati finora, lungi dal risolverla, addirittura peggiorerebbero la situazione, mentre “nuovi leader” di Web e di Forconi promuovono vere e proprie liste di proscrizione contro i giornalisti sgraditi degne del periodo più buio della nostra storia. Alla faccia dei reiterati richiami dell’Europa e delle classifiche internazionali sulla libertà di informazione che ci vedono in una posizione imbarazzante: l’Italia è messa peggio di paesi come Ecuador, Uruguay, Paraguay, Cile ed El Salvador, oltre che di Stati africani come Benin, Sudafrica e Namibia.