Fanus ha 18 anni, ma non sa quando è il suo compleanno. Sa quanti anni ha ma non sa in che giorno è nata. Sa che è nata in un villaggio vicino Asmara e riconosce la voce di sua madre ogni volta che le squilla il telefono. I suoi fratelli invece non li sente da un pezzo. Ogni tanto chiede se sono arrivati ma nessuno sa risponderle. Poi urla, Fanus. Urla improvvisamente e nessuno riesce a contenerla. Neanche se le vanno vicino e la abbracciano e le dicono di non preoccuparsi, che va tutto bene e la stringono. Nel gruppo dei 17 testimoni prigionieri a Lampedusa da tre mesi, Fanus è quella che più di tutti ha bisogno di aiuto. E di lasciare l’isola.
Aveva un’amica Fanus che stava sempre assieme a lei, dormivano una accanto all’altra e la vita le sembrava più sopportabile, nonostante tutto sembrava felice. Poi quella amica è partita, una mattina di dicembre, la vigilia di natale. Se ne è andata insieme ad altre 195 persone, su un aereo diretto a Roma. Lei invece è rimasta, non ha capito ancora perché, ma è rimasta nel centro di accoglienza di Lampedusa. Unica donna tra 16 uomini. Aspettano il magistrato che vuole sentire confermata la loro denuncia contro lo scafista, ma non arriverà prima della fine delle feste. Tra poco saranno tre mesi che aspettano e Fanus non sa cosa dirà a quel magistrato che l’ha costretta a restare, quando invece voleva andare via con la sua amica, la sola che la aiutava a restare in equilibrio. Quando è partita ha pianto e urlato a lungo. Aveva pianto e urlato altre volte, ma di dolore o di rabbia per la violenza, la sopraffazione e la morte conosciute nel viaggio che le ha fatto attraversare il mediterraneo. La disperazione l’ha conosciuta in Italia, a Lampedusa, nel centro di “accoglienza”. Fanus si preoccupa. Pensa ai suoi fratelli che dovevano imbarcarsi con lei quella notte al porto di Misurata, e invece Ermias lo smuggler, all’ultimo momento li ha fatti scendere insieme ad altre 24 persone. Overbooking si sarebbe detto in altre circostanze.
Erano troppi, il barcone non avrebbe retto la traversata. Ermias ed i suoi uomini avevano fucili automatici e pistole, così 26 uomini sono scesi senza protestare. Fanus ha urlato e ha pianto, ma i suoi fratelli le hanno sorriso, le hanno gridato di non preoccuparsi, che si sarebbero visti a Lampedusa. Il barcone è partito, Fanus ha trovato posto sul ponte e da li ha guardato la costa della Libia scomparire. Stavano stretti, ma sotto coperta era peggio e ancora peggio era il livello ancora più basso. Corpi schiacciati uno sull’altro e nessuna via di fuga. Fanus adesso ha una grande stanza tutta per se. Da quando sono rimasti soli i diciassette “testimoni di giustizia” hanno un sacco di spazio. E, soprattutto, possono finalmente accendere e spegnere le luci. Gli interruttori funzionano. Nel vecchio padiglione degli uffici dove hanno dormito tutti insieme per quasi tre mesi, c’è un problema all’impianto elettrico che nessuno ha mai riparato e le luci sono accese 24 ore su 24, anche di notte. In quello stanzone sono rimasti solo due eritrei. Sono voluti restare e nessuno capisce perché. In un’altra stanza hanno steso coperte a terra su tutto il pavimento. È la stanza dove pregano, mussulmani e cattolici, ognuno ha il suo dio. Accanto c’è la stanza di John che ascolta musica continuamente. John dice che quando è arrivato gli hanno dato una penna e gli hanno fatto firmare un foglio. Solo in un secondo momento gli hanno detto che era una denuncia contro quell’uomo che guidava il barcone. “Io non ho denunciato nessuno, lo dirò al magistrato quando arriva”, dice così John che con Fanus scherza spesso, come fanno anche gli altri. In questi tre mesi hanno imparato a conoscersi e a stare insieme. Di Fanus Anna dice: “È una bambina di 18 anni. Concettualmente la vedi serena sta col gruppo, scherzano. Non si isola, ha una relazione con i ragazzi. Ma è una bambina di 18 anni che ora è sola. Le sue condizioni ci hanno preoccupati fin dal primo momento”. Anna Matteoni è la team leader dell’equipe di croce rossa mandata a prendersi cura dei 17 testimoni, finché non arriva il magistrato, che non arriverà prima della fine delle feste. Fanus ha una bibbia. È un regalo. La tiene sotto il cuscino. Quando è ora di dormire la prende e la sfoglia, ma non la legge. È scritta in inglese e lei parla e legge solo l’arabo. La tiene sotto al cuscino la sua bibbia, la custodisce con cura. “È il gesto di un bambino, di possesso, di affetto” dice Anna.
È cattolica Fanus, la sua famiglia è molto religiosa. Prega spesso e non parla mai di quello che è successo la mattina del 3 ottobre. Non vuole parlare del naufragio, lei che si è salvata perché era sul ponte, mentre quelli sotto coperta e quelli schiacciati nel livello ancora più in basso sono finiti in fondo al mare. A tratti parla a tratti no Fanus. Non ha un equilibrio sereno, è evidente a tutti. Ha un telefono con il quale contatta i suoi familiari. E continua ad aspettare i suoi fratelli che non arrivano mai. Il solo riferimento che ha sono quei sedici ragazzi. Quella ragazzina di 18 anni “cerca l’affettività verso gli altri. Si ritrovano e scherzano insieme. In questo microcosmo è integrata.” Dice così Anna di Fanus, e quando le chiedo se non crede sia urgente portare via quella ragazza dal centro di accoglienza di Lampedusa mi risponde che “l’urgenza è determinata dal fatto che sono passati 3 mesi e sono ancora qui.” E poi le chiedo: cosa potete fare voi per quella ragazza? “ci prendiamo cura di lei e monitoriamo la situazione per evitare che degeneri”. Dice così Anna: “monitoriamo la situazione per evitare che degeneri”. In attesa che arrivi il magistrato. Che non arriverà prima della fine delle feste.