Si è aperto ieri a Roma presso la X sezione penale del tribunale il processo contro i clan Fasciani-Triassi, il secondo che porta alla sbarra gli affari delle mafie nel Lazio. Un processo che ha visto la richiesta di costituzione parte civile di molteplici realtà, fra loro la rete di associazioni di Libera, il Comune di Roma, la Regione Lazio, le associazioni “Sos impresa” e “Caponnetto”, Volare Onlus e l’ambulatorio antiusura. In aula anche la società civile, fra gli altri Libera e la rete di Stand up, che ha scelto di non lasciare sole le vittime dei reati di stampo mafioso e di prendere parte al processo per conoscere e capire cosa accade nella regione.
Il clan Fasciani. Sotto accusa nel processo 52 persone cui sono contestate fra l’altro il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso ma anche il traffico di droga e il reato di usura. Imputata è l’intera famiglia dei Fasciani, il capo del clan Carmine, i fratelli Nazzareno, Giuseppe e Terenzio nonché Vincenzo e Vito Triassi e un esponente dei D’Agati, Francesco D’Agati. Accuse anche la rete di prestanome che gestiva gli affari per conto dei clan. Siciliani e laziali ai vertici dell’organizzazione, secondo la procura. Negozi e attività commerciali rilevati dopo aver praticato usura ai legittimi proprietari. Una piazza dello spaccio che va dal litorale laziale e arriva nella Capitale. L’uso della forza intimidatrice del clan per gestire questi ed altri affari come il traffico di armi. Questa la fotografia criminale del clan che si trova a processo e che scaturisce dall’operazione “Nuova Alba” che nell’estate scorsa decapitò il vertice delle mafie che operano sul litorale laziale e soffocano l’economia, in particolare, a Ostia. Nell’inchiesta firmata dal gip del tribunale di Roma Simonetta d’Alessandro è riportato un interrogatorio, tenuto dal pm Ilaria Calò, al collaboratore di giustizia Sebastiano Cassia. E’ il “pentito” a raccontare gli affari del clan ma soprattutto le modalità di azione impiegate per condizionare il tessuto socio-economico, a partire dalle estorsioni sino ad arrivare al traffico di droga proveniente dal Sud America e gestito sin dentro al cuore della Capitale. “Se c’hai bisogno di soldi te li presto, se non c’hai bisogno di soldi, ti costringo a vendermela, e ti dico cercati un amico […] se quello c’ha intenzione glielo vende sennò se aspetta un po’ fino a che si mette sotto strozzo. Se dà fuoco, quello che sia. Come glielo devo spiegà? Gli si fa l’estorsione”. “Se vuoi campare tranquillo mi devi dare, che ne so, 500 o 1.000 euro al mese – racconta Cassia – soldi destinati alle famiglie dei detenuti, di chi gli sta vicino, dei carcerati, di chi li accompagna generalmente. Che ne so, come me, quando io mi accompagnavo a loro a me non sono mai mancati i 5/600 euro dentro la tasca”.
“Questo processo ci riguarda tutti”. I boss sono sorpresi di vederli in aula, dal nord al sud del Paese. Ma loro ci sono e anzi sono sempre di più. Sono cittadini, associazioni, comitati, istituzioni locali, studenti che hanno scelto di non lasciare sole le vittime di usura, racket e reati di stampo mafioso nelle aule dei tribunali in cui dall’altra parte invece ci sono i boss, con la loro violenza delle parole e degli sguardi. Anche ieri a Roma all’apertura del processo contro i clan Fasciani-Triassi una cinquantina di persone ha scelto di prendere parte all’udienza. Fra loro, come dicevamo, associazioni, studenti e cittadini singoli che spiegano “vogliamo esserci perchè questo processo ci riguarda da vicino, riguarda tutti noi cittadini che da anni vediamo avanzare le mafie nelle nostra regione, allearsi con la criminalità organizzata autoctona, investire nelle attività economiche, comprimere i diritti sul territorio”. “Vogliamo esserci – inoltre – per dire alle vittime che non sono sole in quelle aule dove i boss, spesso intere famiglie, pensano di restare impuniti e di esercitare un potere anche dietro alle sbarre”. Significativa, inoltre, la presenza di alcuni familiari di vittime delle mafie che con Libera ieri sono stati all’apertura del processo che – come spiega Alfredo Borrelli, familiare di vittima della ‘ndrangheta che da anni vive a Roma – si inserisce nel solco delle motivazioni che portano l’associazione alla costituzione parte civile nel processo. La nostra presenza, fra le altre cose – spiega Borrelli – serve a dire che non devono esserci più vittime delle mafie, della loro violenza criminale e del loro condizionamento mafioso. Il sangue versato dai nostri cari sia da monito anche qui a Roma e nel Lazio”.
Il prossimo 22 marzo la rete di associazioni di Libera sarà a Latina per la XIX Giornata della Memoria e dell’Impegno nel ricordo di tutte le vittime della mafie. Una scelta significativa che sta mettendo in moto percorsi di impegno e formazione su tutto il territorio sul fenomeno criminale e sulle buone pratiche antimafia nel Lazio. E anche il processo che si è aperto ieri a Roma sarà una occasione di giustizia e verità contro mafie e corruzione. Si tornerà in aula il prossimo 21 gennaio.