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La difficile transizione verso il post 2014 e la strategia di Karzai.

Articolo di: Giuliano Battiston

Karzai frena, prende tempo, pone ulteriori condizioni. I 2.500 delegati della Loya Jirga premono per chiudere la partita il prima possibile. Gli americani minacciano di riportare tutti i soldati a casa, una volta finita la missione Isaf, alla fine del 2014, se Karzai non cede. É questo l’esito della Grande assemblea convocata da giovedì a domenica scorsa a Kabul per discutere l’Accordo bilaterale di sicurezza con gli Stati Uniti, dal quale dipende la futura presenza militare degli americani in Afghanistan. Il sì concesso domenica dalla Loya Jirga all’Accordo con gli Stati Uniti era prevedibile. Sorprende invece la spaccatura (orchestrata o vera che sia) sui tempi della ratifica. Da una parte ci sono i membri della Grande assemblea e il suo portavoce, l’87enne Sibghatullah Mujaddedi, allineati sulle posizioni degli americani. Dall’altra il presidente Karzai. I primi si augurano che la ratifica arrivi entro la fine dell’anno, Karzai insiste invece nel dire che l’accordo potrà essere firmato soltanto dopo le elezioni presidenziali del 5 aprile 2014, o perlomeno dopo che gli Stati Uniti avranno dimostrato di impegnarsi nel negoziato di pace, senza bypassare il suo governo come accaduto a giugno, quando gli americani hanno avallato l’apertura dell’Ufficio politico dei Talebani in Qatar, facendo infuriare il presidente afghano.

Alla vigilia della Loya Jirga, molti si aspettavano che Karzai ne incassasse il sì per procedere più speditamente verso la ratifica, con le spalle coperte per il passaggio al Parlamento dell’Accordo. Invece ha fatto il contrario, dicendo di voler riaprire i negoziati e ponendo altre condizioni: la fine immediata di ogni attività militare che preveda l’ingresso dei soldati americani nelle case afghane; la garanzia che gli Stati Uniti si impegnino, senza interferire, per “elezioni corrette” e che si adoperino sinceramente per il processo di pace, rilasciando innanzitutto (come chiesto dalla Loya Jirga) i 17 detenuti afghani rinchiusi da anni nella prigione di Guantanamo, tra i quali ci sono alcuni esponenti della galassia talebana.

Le ragioni della prudenza di Karzai sono diverse. Una, forse la più importante, l’ha spiegata lui stesso giovedì, in apertura dei lavori: “tra me e gli americani non c’è fiducia. Io non mi fido di loro. Loro non si fidano di me. E’ chiaro da dieci anni”. Paradossalmente, la firma di due memorandum di intesa nel 2012 (a marzo sulla responsabilità dei prigionieri del centro di detenzione di Bagram, ad aprile quello sui raid notturni) anziché favorire la fiducia reciproca l’ha ulteriormente compromessa. Gli afghani sono infatti convinti che gli americani non rispettino gli accordi, che li interpretino a loro favore. Per questo, il presidente ha chiesto altre garanzie, prima di chiudere la partita sull’Accordo, che garantirebbe per altri dieci anni la permanenza dei soldati americani in Afghanistan (dagli 8 mila ai 15 mila), la loro immunità rispetto alle leggi afghane (la Loya Jirga ha chiesto che si istituiscano dei tribunali nelle basi americane, accessibili alle autorità afghane), l’accesso dei soldati a stelle e strisce ad almeno 9 basi militari (e l’uso esclusivo della base di Bagram, mentre la Loya Jirga, più realista del re, ha chiesto di includere anche quella di Bamiyan tra le basi da concedere). Da Washington, il segretario di Stato, John Kerry, ha incassato con soddisfazione il sì della Loya Jirga, ricordando a Karzai che, per panificare per tempo la presenza dei soldati americani nella fase post-2014, l’Accordo va firmato il prima possibile. Non è però riuscito a convincere Karzai il quale, nella cena avuta lunedì sera a Kabul con Susan E. Rice, la consigliera dell’Amministrazione Obama per la sicurezza nazionale, ha ribadito le sue condizioni. Susan Rice ha ribadito all’alleato recalcitrante che gli Stati Uniti vincolano gli aiuti futuri all’Afghanistan alla firma dell’Accordo. E ha poi minacciato la cosiddetta opzione zero: il ritiro completo dei soldati a stelle e strisce e di quelli della Nato. La minaccia non è nuova: a tirarla fuori per la prima volta era stato a gennaio Benjamin Rhodes, vice-consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Obama. Karzai sembra convinto che si tratti solo di un bluff, e per ora tira la corda. Lo fa per alzare il prezzo, non per rimettere davvero in discussione l’Accordo.

Su questo, il suo portavoce, Aimal Faizi, è stato netto: “Il presidente ha detto che l’Accordo bilaterale di sicurezza verrà firmato. Ma ha detto anche che bisogna dare al popolo afghano il tempo necessario affinché veda che gli Stati Uniti hanno cambiato atteggiamento e che ci sono dei cambiamenti in termini pratici: nessun altro raid nelle case degli afghani, nessun’altra uccisione di civili da parte delle forze americane, l’avvio del processo di pace”. Difficile capire fino a che punto sia disposto a rischiare Karzai. Di certo, il teatrino di questi giorni gli serve anche per rifarsi un’immagine, presentandosi come il presidente che tenta di salvaguardare la sovranità del suo paese. Qualcuno crede alla sua buona fede. Qualcun altro legge la sua “intransigenza” come l’ultimo atto di un prestigiatore politico, la performance finale di un attore che vuole strappare l’applauso prima di uscire di scena. Per i Talebani, oltre a Karzai dovrebbero uscire di scena anche i soldati stranieri. In un comunicato ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan reso pubblico domenica, i seguaci del mullah Omar criticano la Jirga come una “farsa” e ogni eventuale accordo tra “il governo fantoccio di Karzai” e gli americani come “illegale”, perché tale va considerato un accordo “tra uno schiavo e il suo padrone”. Se dovessero essere firmati, tali “accordi non faranno che incrementare il fervore per la jihad nelle arterie dei veri afghani e ingrosseranno le fila del jihad. Con il favore di Allah, l’Afghanistan diventerà il cimitero dell’arroganza internazionale, non il terreno per le basi militari permanenti”, scrivono i turbanti neri.

Da perlapace.it


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