L’ennesima, imponente manifestazione contro la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione e per un diverso tipo di sviluppo e di democrazia è stata archiviata in silenzio dalla politica e da gran parte dei media. Il massimo dell’interesse si è concentrato sulla foto di una manifestante che bacia la visiera del casco di un agente di polizia (con relative diverse interpretazioni) e traspare un malcelato disappunto per la mancanza di «incidenti» che avrebbero riempito le prime pagine della stampa scritta e parlata. Tutto ciò non è casuale ma fa parte di una strategia ricorrente nei tempi di crisi economica e sociale, in cui la ricerca di diversivi e di nemici su cui dirottare l’attenzione è regola. Questa volta tocca alla Val Susa.
C’è, in quella valle, un movimento che dal 1989 si oppone alla costruzione della linea ferroviaria per ragioni che riguardano la tutela dell’ambiente e della salute della popolazione (essendo la montagna da scavare ricca di amianto e di uranio), l’inutilità della nuova linea in considerazione della caduta verticale degli scambi di merci sulla direttrice est-ovest, lo spreco di risorse in periodo di gravissima crisi economica, il carattere autoritario della decisione di costruire l’opera, avvenuta scavalcando popolazione e istituzioni locali. Il movimento è profondamente radicato nel territorio e, per oltre vent’anni, ha gestito il conflitto in modo del tutto pacifico, riducendo al minimo i momenti di attrito con le forze dell’ordine. La politica e i media, fin quando possibile, hanno ignorato il movimento trattandolo come un’armata Brancaleone composta da folkloristici montanari fuori dalla storia, moderni Asterix e Obelix egoisticamente interessati solo alla propria terra e destinati ad essere travolti dalla ragione e dal progresso.
Ma nel 2011 lo scenario cambia. Dopo tentennamenti e incertezze i promotori dell’opera decidono di iniziare i lavori con lo scavo, alla Maddalena di Chiomonte, di un tunnel geognostico. Il movimento cerca di impedirlo occupando l’area. La mattina del 27 giugno un esercito di carabinieri e di agenti di polizia in tenuta antisommossa, con l’ausilio di ruspe e altri mezzi da cantiere, procede allo sgombero con un intervento particolarmente violento, comprensivo dell’uso massiccio di gas lacrimogeni. Le tende degli occupanti vengono distrutte o imbrattate (vi si troveranno escrementi e urina) e scompaiono oggetti ed effetti personali. Il movimento No Tav, la popolazione della valle, gran parte degli amministratori locali vivono lo sgombero, la violenza impiegata, gli sfregi subiti come un sopruso e la temperatura si alza. Il successivo 3 luglio, domenica, 70.000 persone – abitanti della Val Susa e manifestanti giunti da tutta l’Italia – danno vita a un grande corteo che si conclude alla Maddalena (trasformata, nel frattempo, in una sorta di base militare recintata). All’esito della manifestazione e fino a notte si verificano diffusi e violenti scontri di una parte dei dimostranti con le forze di polizia.
Inizia, così, un conflitto aspro e, apparentemente, senza soluzione. Il movimento non disarma e intensifica le iniziative di disturbo del cantiere al fine di tenere alta la tensione e l’attenzione dell’opinione pubblica (il cui consenso nei confronti delle rivendicazioni No Tav cresce sino a toccare – secondo l’Ispo di Mannheimer per il Corriere della Sera all’inizio del 2012 – il 44 per cento degli italiani). In occasione di alcune iniziative, finalizzate a “tagliare le reti”, spezzoni più o meno ampi di dimostranti lanciano verso il cantiere oggetti, sassi e fuochi di artificio mentre le forze di polizia rispondono con gas lacrimogeni talora sparati ad altezza d’uomo. A fronte di ciò l’establishment pro Tav si scatena gridando alla guerra ed evocando, con irresponsabile reiterazione, il morto. Le forze politiche di governo rinunciano a ogni ricerca di dialogo e militarizzano il territorio, addirittura con ricorso a forze armate già impiegate in missioni di guerra. A ciò fa da supporto un’informazione embedded (prevalente seppur non esclusiva) arruolata dapprima nella attività di propaganda e, poi, onnipresente partecipe delle operazioni di ordine pubblico al seguito delle forze di polizia anche dove è inibito l’accesso a ogni altro (compresi i giornalisti non accreditati). L’intervento repressivo della magistratura è, a sua volta, particolarmente duro, con forzature in chiave di tutela dell’ordine pubblico, ben oltre il doveroso perseguimento degli episodi di violenza e dei reati. Quando, poi, si verificano incendi e attentati in danno di ditte impegnate nei lavori per la linea ferroviaria e l’invio di un pacco bomba a un giornalista della Stampa, politici, giornali e magistrati si precipitano ad attribuirne la responsabilità al movimento No Tav, dimenticando che i principali siti del movimento hanno respinto ogni coinvolgimento, che le prevaricazioni mafiose sono in valle una realtà risalente, che incendi e danneggiamenti toccano da anni presìdi No Tav e auto o beni di attivisti, che la storia del Paese ci ha abituati a una moltitudine di attentati simulati, che i gesti sconsiderati di chi è interessato a pescare nel torbido o di schegge impazzite di diversa estrazione non sono una novità (tutte circostanze che renderebbero quantomeno opportuna un po’ di prudenza).
La storia si ripete. Ma non è un buon segno per la democrazia.