Difendere la rete è un dovere politico, civile e morale. Si tratta della principale intelaiatura della biblioteca dei saperi dell’età digitale e mettere bavagli è un delitto. Per questo c’è da avere la massima attenzione a temi sensibili come il copyright, evitando assurde invasioni nel legittimo campo parlamentare da parte di un organo amministrativo come l’Agcom. Così vanno respinti i tentativi di mettere censure, che costantemente riaffiorano come riflesso dell’impotenza del ceto politico.
Proprio per questo, però, non è credibile fare ostruzionismo contro la tassazione delle entrate dei grandi gruppi (da Google ad Amazon, i cosiddetti «over the top»), che operano anche in Italia con successo. Il tema è entrato nella discussione pubblica per un emendamento proposto al progetto di legge di stabilità presso la commissione bilancio della Camera, teso a regolarizzare la posizione fiscale delle nuove imprese cross-mediali. Queste ultime superano furbamente i concetti di tempo e di spazio dell’era analogica domiciliandosi dove le aliquote sono inferiori, come l’Irlanda o il Lussemburgo. Esattamente come fanno diversi evasori eccellenti, di cui la cronaca parla con frequenza. Alla faccia dell’equità. Non è serio, e bene sarebbe che si desse prova di responsabilità con un atteggiamento e una cultura egemonici rispetto alla società dell’informazione.
Senza assumere tale fisionomia, i grandi soggetti della rete rimarranno confinati nelle sottoculture «devianti», tollerati ma non assunti a protagonisti di un altro modello produttivo. È una sfida seria. Google, per citare il caso più noto, raccoglie ormai circa 500 milioni di euro di pubblicità solo in Italia, subito dopo le vecchie televisioni e compete con i maggiori gruppi editoriali. Del resto, l’advertising on-line è l’unico comparto in crescita (+18% nel primo quadrimestre del 2013, dati Nielsen) in un periodo del tutto recessivo. A livello internazionale la stessa Google è la regina della raccolta nel «mobile», 4,6 miliardi di dollari e il 52% del settore; e bene si difende con il 33,2% nell’on-line (dati emarketer). Amazon sta via via soppiantando le librerie e il resto della nomenclatura dei nuovi ricchi è noto. Non si comprendono le polemiche, piuttosto artificiose e strumentali, che fanno del male alla credibilità della rete. Lasciamo stare la dialettica in seno al Movimento 5Stelle, o qualche commento ammaliato dal fascino discreto dei padroni digitali (accadeva, eccome, con Rai e Mediaset). Il tempo sarà galantuomo. Ci si prenda cura, piuttosto, dell’economia politica del sistema.
Ecco, allora, un’ipotesi redistributiva favorevole a chi fatica a vivere in un mercato concentrato prima e dopo la famosa rivoluzione tecnologica: si aggiunga una norma finalizzata a finanziare il fondo per l’editoria non profit, ora del tutto insufficiente, e l’emittenza locale.
Già si sentono le voci stizzite degli interessati, come si sono sempre sentite (e subite) quelle di Publitalia o Sipra di fronte a propositi omologhi. Ma ben poco avviene per pura solidarietà. È lo stato democratico a dover difendere la libertà di informazione, indirizzando il futuro verso una globalizzazione aperta e socialmente consapevole. Non verso un far-west ancor più prepotente e selvatico.
Insomma, se è grottesco ingaggiare una guerriglia con gli «over the top» per la pubblicazione di qualche articolo carpito da una rassegna stampa o immaginare leggine medioevali per filtrare la rete, altro è prendere atto dei nuovo percorsi del valore. Una piccola «patrimoniale» digitale. Chi si scandalizza indirizzi gli anatemi verso i tagli della spesa sociale o la condizione precaria in cui vivono e lavorano gli e-worker. O guardino al resto d’Europa. Se c’è un giudice a Berlino, vale per tutto e non solo quando fa comodo.
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