Martedì 12 novembre in Senato è risultato palese il grande stallo sulla legge elettorale. Ciò è avvenuto a seguito della bocciatura, in Commissione affari costituzionali, dell’ordine del giorno (presentato da PD, SEL e Scelta civica) di modifica della legge vigente, intervenendo soprattutto sul premio di maggioranza. Si proponeva che questo divenisse nazionale per entrambe le Camere e che scattasse soltanto per la lista o la coalizione che avesse ottenuto la maggioranza assoluta, o almeno il 40/45 per cento dei voti. Altrimenti ci sarebbe stato il ballottaggio nazionale tra le due liste o coalizioni più votate al primo turno e il premio sarebbe stato attribuito a quella con maggiori consensi al secondo turno.
La proposta, che circola da mesi, ha avuto il voto dei soli esponenti dei tre partiti presentatori, ed è stata così respinta. Dopo di che – senza passare al voto degli altri ordini del giorno (quello Calderoli, per il ritorno alla legge Mattarella; quello dei 5stelle che va verso il sistema spagnolo con le preferenze) – si è rinviato tutto di oltre una settimana. Ancora.
La riforma elettorale – dichiarata “urgente” in agosto – sembra quindi tornata al punto d’inizio, come quando nel gioco dell’oca si finisce nella casella dello “scheletro” (appunto). Infatti, sia in Commissione affari costituzionali del Senato sia nel dibattito pubblico, è tornata perfino ad affacciarsi l’ipotesi di rinviare la legge elettorale a dopo la riforma costituzionale, che potrebbe richiedere un paio d’anni. Era questa, in effetti, l’impostazione adottata dopo la formazione delle “larghe intese” (che – si sa – puntano anche sulla lunghezza). La successiva dichiarazione d’urgenza della legge elettorale, e quindi la sua anticipazione rispetto alle riforme costituzionali, si deve, da un lato, al fatto che la legislatura è divenuta “a rischio di decadenza” (per la nota vicenda) e, dall’altro, alla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Cassazione, che potrebbe portare prossimamente (il 3 dicembre) ad una dichiarazione d’incostituzionalità della legge vigente (o meglio di sue parti caratterizzanti).
Ad oggi, però, sulla riforma elettorale non è stato compiuto alcun reale passo avanti. E questo nonostante le “larghe intese”, che eventualmente dovrebbero servire proprio a risolvere poche questioni (davvero) urgenti per poi tornare – a seguito delle elezioni – alla fisiologia del confronto e dell’alternanza. A questo punto, l’unica soluzione a portata di mano, per consentire ai cittadini di tornare a votare in qualunque momento senza il “porcellum”, ormai screditato in tutte le sedi, sembrerebbe il ritorno (almeno come soluzione provvisoria) alla legge Mattarella.
Questa soluzione, nel corso di questi nove mesi di legislatura, ha incrociato, prima o dopo, il consenso di quasi tutte le forze politiche: pendono, infatti, in Senato, disegni di legge per la reintroduzione della legge Mattarella presentati da PD, SEL, Lega e dal gruppo delle autonomie. Nello stesso senso, del resto, andava la mozione Giachetti presentata la scorsa estate alla Camera e che ebbe il voto favorevole del Movimento 5 stelle e di SEL (ma non del PD che allora riteneva necessario fare prima le riforme costituzionali), ed ora l’ordine del giorno Calderoli (Lega). Anche tra i candidati alla segreteria del PD la soluzione sembra ormai trovare ampio consenso. Se, infatti, Civati propone da mesi la reintroduzione della legge Mattarella (magari corretta rispetto al sistema di attribuzione dei seggi nella quota proporzionale della Camera), oggi convergono sulla stessa posizione anche Cuperlo e Renzi.
Sembra, quindi, che su questo sistema vi sarebbero larghissime intese, anche se – è vero – diverse da quelle di Governo. Il che, da un lato, potrebbe far riflettere sulla formula politica che lo sostiene, ma, dall’altro, non dovrebbe comunque impedire l’approvazione della legge, che anzi, avvenendo con un’ampia maggioranza, rispetterebbe le prescrizioni del codice di buona condotta elettorale del Consiglio d’Europa, a differenza di quanto avvenne per il “porcellum”, a suo tempo approvato, in fretta e furia, allo scadere della legislatura, col voto della sola maggioranza di Governo.