Dieci in 160 metri quadrati. E un anno per ottenere un permesso
Salvo Catalano
Alla fine dell’estate il Centro d’accoglienza per richiedenti asilo più grande d’Europa ha raddoppiato la sua popolazione, a causa dei continui sbarchi. Adesso vivono in dieci in una casa di 160 metri quadrati. Aspettano mediamente un anno per ricevere un permesso da rifugiati e intanto si sono organizzati, tra feste e mercatini fai da te.
«Siamo diventati la prima impresa del Calatino», spiega Sebastiano Maccarrone, direttore del consorzio che gestisce il Centro ricevendo dallo Stato circa 4milioni di euro al mese e offrendo opportunità di integrazione. A volte però non bastano per affrancarsi da una condizione di eterno presente.
«Questo è un luogo di passaggio, non solo burocratico, soprattutto mentale». La definizione più azzeccata del Centro d’accoglienza per richiedenti asilo più grande d’Europa è di Gioacchino Cutrupia, uno degli psicologi che presta servizio al Cara. A lui e ai suoi colleghi è affidata la delicata missione di rimarginare ferite profonde: «Traumi post-violenze, mancanza di sonno e concentrazione, impazienza e tristezza». Lavoro improbo in una struttura che accoglie quasi quattromila persone. Mercoledì 16 ottobre, il giorno della nostra visita, la cucina ha sfornato 3.890 pasti a pranzo. Riso in bianco, pasta con salsa e fagioli, hamburger di tacchino. Numeri lievitati con l’aumento degli sbarchi.
«Alla fine dell’estate, in 15 giorni siamo passati da duemila ospiti, il massimo della capienza secondo l’accordo politico sul territorio, a quelli attuali», spiega Sebastiano Maccarrone, direttore del Centro.
Prima di arrivare a Mineo ha lavorato a Lampedusa, dove il discusso consorzio Sisifo,gestisce il centro di prima accoglienza.
In ogni casa vivono attualmente una decina di persone, divisi per nazionalità e gruppi famigliari. Le strutture a disposizione dei migranti sono 370, mentre una trentina sono occupate da uffici dell’amministrazione o sono usate per altri servizi. Ogni casa è realizzata su due piani, per una grandezza complessiva di 160 metri quadri e dispone di tre bagni. L’arredamento interno varia molto in base a chi le abita: alcune sono spoglie, solo brandine e materassi. Altre ben accessoriate. Moltissimi hanno aperto piccole attività commerciali fai da te all’interno del Cara: si vende di tutto, dai vestiti alle vettovaglie, dalle pentole alla connessione internet. Uru Bangna ha 22 anni e viene dal Togo. Ha le mani sporche di grasso, passa il pomeriggio a smontare copertoni di biciclette, riparare camere d’aria e cambiare pezzi. Lui e i suoi pochi conterranei – i togolosei rappresentano una comunità piccola nel Centro, appena una quindicina di persone – hanno aperto una ciclofficina.
Un euro per ogni camera d’aria da rammendare. Un business che funziona, considerato che in ogni casa c’è almeno una bici. «Ma per chi non ha soldi lo facciamo anche gratis», sottolinea Uru prima di spiegare cos’è che secondo lui non funziona nel Cara. «E’ vero, siamo liberi ma come faccio a cercare un lavoro se la sera devo rientrare qui? Non capisco le leggi italiane». Si appassiona, alza la voce, ma la abbassa rapidamente quando vede passare una volante della polizia.
Uru Bangna è a Mineo da sette mesi. Non ha ancora raggiunto la durata media di permanenza nel centro, che, secondo i dati del direttore, si attesta ad un anno. Passano mediamente 365 giorni prima di ricevere il responso della commissione territoriale sulla richiesta di asilo: vengono concessi cinque anni se viene riconosciuto lo stato di rifugiato, tre anni in caso di protezione sussidiaria (se si rischiano ritorsioni tornando in patria), un anno per quella umanitaria.
La commissione è l’argomento principale dei migranti, il nemico assente contro cui a volte si scatena la rabbia, come successo l’ultima volta il 3 ottobre quando la polizia è intervenuta per sedare una protesta di 200 africani che avevano occupato la strada statale. La sottocommissione di Mineo, ramo delocalizzato di quella di Siracusa, non esiste più formalmente dallo scorso dicembre, da quando è cessata l’emergenza Nord Africa. «In realtà non funziona dall’estate del 2012 e le cose da quel momento sono peggiorate», spiegano dal pool di otto avvocati che lavora all’interno del Cara.
Più di un anno dal ricorso
All’attesa per il primo responso della commissione si aggiunge a volte anche quella successiva al ricorso. «Un esempio? Per un ricorso presentato ad aprile del 2012, la sentenza è arrivata nell’agosto del 2013. Un anno e quattro mesi dopo», precisano i legali. Ecco che i tempi si dilatano all’infinito. «Ma l’emergenza in realtà non è affatto finita – ammette il direttore Maccarrone – Il Ministero ha deciso recentemente di aumentare il numero delle commissioni, dovrebbe nascerne una a Ragusa, così che a breve quella di Siracusa possa dedicarsi esclusivamente al Cara di Mineo».
Chi invece è arrivato da appena 20 giorni è Omar, uno dei 14 siriani ospiti. Nelle ultime settimane in realtà ne sono passati un centinaio dal Cara, ma la maggior parte è scappata il giorno dopo. Direzione Nord Europa. Omar, 26 anni, è rimasto. «Non ho i soldi per continuare il viaggio e qui mi trovo bene», spiega. Viene da Aleppo ed è di origine curda.
Per spiegare cosa comporti la combinazione di questi due elementi, Omar mostra un video agghiacciante sullo smartphone di un suo coinquilino. Un gruppetto di uomini curdi è piegato sulle ginocchia a ridosso di un muro ad Aleppo. Attorno a loro quelli che Omar definisce «ribelli, miliziani di Al Qaeda» urlano, quindi scaricano addosso ai malcapitati una sequenza interminabile di colpi di mitra.
«Ci odiano tutti, i ribelli perché dicono che siamo amici di Bashar al Assad, ma anche il regime; per noi in Siria non c’è speranza. Ad Aleppo ho lasciato la mia famiglia, oggi sono vivi, domani non lo so. Non posso neanche chiamarli, perché non hanno più un telefono».
Omar è uno dei pochi che non ha trasformato l’ingresso di casa sua in un piccolo bazar. Di fronte a lui Mohamed, dall’Eritrea, ha una collezione di scarpe, in parte nuove e in parte usate che vende a nove euro al paio. «Le compro a Catania, vado in taxi, andata e ritorno mi costa dieci euro». Anche Ibrahim, del Gambia, vende scarpe. Prezzi più bassi: un euro al paio. «Le prendo nei cassonetti a Catania, quelle che gli italiani buttano perché sono vecchie». Ma ci sono anche pentole di tutte le misure, quattro o cinque euro l’una. «E’ l’unico modo che ho per aiutare la mia famiglia, in Gambia ho due figli e una moglie», aggiunge Ibrahim.
Bancarelle a ogni passo
Più ci s’avvicina alla mensa, più le bancarelle aumentano. Un pacco di zucchero e una bottiglia di olio di semi si vendono a un euro e cinquanta, non c’è distinzione. I bazar fai da te funzionano anche perché in quello ufficiale del campo le attese a volte sono troppo lunghe. «Ho aspettato un mese per avere uno shampoo», si lamenta Uru, il meccanico delle biciclette. Ogni giorno i migranti ricevono 2 euro e 50 centesimi su un badge. Spendibili solo all’interno del campo, in sigarette, schede telefoniche, ticket da consumare in locali convenzionati (nel paese di Mineo ce ne sono due), o altri prodotti che si possono richiedere al mercato del Cara.
«Non possiamo dare soldi liquidi, perché, visti i grandi numeri, dovremmo blindare il campo», spiega il presidente del Centro. Un operatore racconta che in estate uno degli ospiti si è fatto recapitare un camion frigorifero pieno di gelati e ha aperto un piccolo bar. «Noi non siamo preposti a sorvegliare gli ospiti o sottrarre loro oggetti che portano nelle loro case», sottolinea Maccarrone.
Così ogni pomeriggio un fruttivendolo di Mineo piazza la sua ape davanti all’entrata del Cara e fa affari d’oro vendendo ai migranti frutta e verdura. Ha anche assunto uno degli ospiti che lo aiuta con la traduzione, in cambio di una busta della spesa e una piccola paga.
Un’economia interna ed esterna che ha portato ricchezza a tutto il territorio. «Il consorzio ha assunto 300 dipendenti, quasi tutti della zona – fa i calcoli il direttore – I migranti spendono i soldi che hanno a disposizione nei paesi vicini e noi ci rivolgiamo a fornitori locali per i beni di cui necessitiamo. Il Cara è diventato la prima impresa del Calatino».
In cambio di tutto questo, il ministero degli Interni paga al consorzio 34 euro e cinquanta centesimi al giorno per ogni migrante, un’entrata quotidiana di 138mila euro in questo momento, circa quattro milioni di euro al mese. «E’ la stessa cifra per tutti i Cara d’Italia, solo che noi oltre ai dipendenti, le utenze, il vitto, paghiamo anche l’affitto alla proprietà della struttura, la ditta Pizzarotti».
Ogni giorno è lo stesso consorzio a presentare un report delle presenze al ministero. «Se il badge di un ospite non viene movimentato per più di tre giorni, in entrata o alla mensa per esempio, viene automaticamente dismesso dal nostro database», precisa Maccarrone.
Nel primo pomeriggio quasi tutti bivaccano davanti casa. Qualcuno porta fuori le casse e la musica si propaga per tutto il viale. Una donna si tiene in equilibrio sulle tegole per pulire il tetto, usato in molte villette come ricettacolo di rifiuti.
Davanti all’ambulatorio della Croce Rossa, dove sono reperibili in ogni momento due medici e cinque infermieri, c’è sempre la fila. Si effettuano circa 120 visite al giorno. «Ma nella maggior parte dei casi si tratta di interventi banali, un po’ come gli anziani italiani che non avendo granché da fare passano molto tempo dal dottore», afferma Stefano Grasso, il coordinatore dei medici. I numeri dicono che sono circa 300 le persone che seguono una terapia, cronica o occasionale.
La nota dolente arriva quando si parla di emergenze o di ricoveri. Il pronto soccorso più vicino è quello di Caltagirone. «Gli diamo tanto lavoro e in qualche reparto non ci vedono di buon occhio», spiega Grasso. «La verità – ammette il direttore Maccarrone – è che quell’ospedale, con l’apertura del Cara, non è mai stato potenziato e non risponde alle esigenze dei migranti. Mancano ad esempio i mediatori culturali. Siamo costretti spesso a mandare i nostri: come dovrebbe fare altrimenti un ragazzo africano a comunicare il proprio malessere?». Eppure il nosocomio calatino ha tratto anche dei vantaggi: con 51 parti negli ultimi due anni, le donne del Cara hanno scongiurato la chiusura del reparto di ginecologia. «Senza considerare l’aumento dei finanziamenti, proporzionale al numero delle prestazioni, che la Regione garantisce all’ospedale», aggiunge Grasso.
Di fronte alla mensa c’è lo Spazio delle opportunità, il luogo in cui si gestiscono tutte le attività aggiuntive rispetto all’ordinario, come i corsi di informatica, il giornalino e la ludoteca per i bambini. Il giorno precedente alla nostra visita si è tenuta la festa musulmana del Tabaski, del sacrificio, a cui farà seguito un’altra festa laica in fase di organizzazione. Il corso di danza, a cui partecipano una trentina di migranti, ha prodotto un gruppo, il Cara Free Spirits, che si è esibito in vari paesi della provincia di Catania, portando in giro balli di tutto il mondo. Una rappresentativa vincente è anche quella di calcio.
“Prendono solo qualche calciatore
Qui i numeri aumentano, sono circa un centinaio quelli che partecipano agli allenamenti tenuti dal lunedì al venerdì da due giovani allenatori, Gianluca Trombino e Giuseppe Mazzella. «La nostra squadra ha vinto tutte le amichevoli disputate finora – afferma Trombino, un passato al Grenoble, in Francia – e siamo riusciti a piazzare i nostri giocatori più bravi in qualche squadra locale, come Calatabiano e Scordia, mentre un ospite nigeriano adesso gioca in Bundesliga (la serie A tedesca, ndr) nell’Hoffenheim». Ma il calcio è l’unica attività in cui la selezione dei curricula ha portato a qualche risultato. «Tra la crisi e la diffidenza, le imprese non hanno mai preso in prova nessuno dei migranti del Cara», spiegano dalla direzione.
Giovanni Discolo è il professore di italiano nella classe di livello A2, il più alto al momento. «Anche se l’obiettivo sarebbe portarli al B2», precisa. Sono state formate 29 classi da 30 studenti ciascuna. In totale quasi 900 persone per sei insegnanti. Anche se i numeri ufficiali parlano di duemila 800 iscritti ai corsi di italiano. Giovanni insegna a ospiti di nove nazionalità differenti: Mali, Costa d’Avorio, Gambia, Bangladesh, Pakistan, Senegal, Somalia, Eritrea e Guinea. «All’inizio li avevamo divisi per ceppo linguistico, ma poi ci siamo accorti che era meglio mischiarli per favorire l’integrazione».
Ne sono convinti anche gli psicologi: imparare l’italiano e avere un gruppo di appartenenza sono due risorse indispensabili per non perdersi. Ma non tutti ce la fanno in una condizione di eterno presente, dove domani rischia di essere uguale a ieri. E i sogni e i progetti una pietra preziosa custodita in un cassetto da sbirciare ogni tanto per non dimenticare quale sia la loro sostanza.