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Ma davvero la legge consente di mettere a gara la Concessione affidata dallo Stato alla Rai?

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Le amare vicissitudini del servizio pubblico radiotelevisivo greco, che recentemente ha dovuto subire anche la “visita” di oplitiche falangi, non hanno avuto rilevanza solo locale, limitata ad un Paese in forte crisi economica, ma hanno arrecato grave disorientamento anche in Europa, specie negli Stati con enorme debito pubblico (Italia, Irlanda, Portogallo) che hanno subito una “governativizzazione” dei propri servizi pubblici. In Italia, in particolare, lo sconcerto è ancora più grande se si pensa ai ripetuti accenni di membri del governo di mettere a gara la Concessione o di privatizzare la RAI, quando è noto che, dal lontano 1975, il servizio pubblico è stato “parlamentarizzato, cioè sottratto alla gestione da parte dell’esecutivo.

Sarebbe legittimo domandarsi se il caos ingenerato in Italia derivi da mancanza di regolamentazione o da lacune normative che il legislatore italiano ha mancato di colmare. Ebbene, è sicuramente da escludere che il disorientamento sia dovuto a un confuso quadro legislativo, in quanto il nostro ordinamento, confortato da una giurisprudenza costituzionale sempre attenta ad integrarne le manchevolezze, prevede tuttora precise disposizioni in materia di servizio pubblico radiotelevisivo sia riguardo al potere cui è riservata l’attività, sia riguardo alla natura giuridica dell’ente affidatario, sia alla missione da compiere.

La  legge 4 febbraio 1985, n. 10, all’art.1 prevede, infatti, che  “Il servizio pubblico radiotelevisivo su scala nazionale è esercitato dallo Stato mediante concessione ad una società per azioni a totale partecipazione pubblica di interesse nazionale ai sensi dell’articolo 2461 del codice civile”. La legge n. 10/85, pur risalendo a circa trent’anni fa, non è stata rimossa né dalla riforma “Gasparri” né dal Testo unico sui media audiovisivi. Peraltro, la mancata abrogazione non può essere imputata ad una “dimenticanza” del legislatore visto il meticoloso e massiccio piano di abrogazioni espressamente e testualmente disposto dalla l. n. 112/04 e dal D. Lgs. n. 177/05 e successive modifiche.

Che la Gasparri abbia confermato la l. n. 10/85 non risulta solo dalla formale non abrogazione, ma anche dalla sostanziale circostanza che la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo ha conservato l’assetto disegnato dalla l. n. 10/85 per più di dieci anni dall’approvazione della riforma Gasparri senza che nessuno abbia urlato alla violazione di legge (e l’assetto del servizio pubblico radiotelevisivo tuttora risponde ai canoni della legge dell’85: riserva dell’attività allo Stato, e affidamento in concessione ad una società per azioni totalitariamente in mano pubblica)

Anche laddove la legge Gasparri innova, consentendo la dismissione del compendio azionario della Rai, non innova per abrogare la l. n. 10/85, ma per affiancare ad essa, in eventum, la disciplina della dismissione del compendio azionario della Rai, disciplina che non suona come prescrittiva, ma come limite alla discrezionalità delle modalità di dismissione (modalità che per i vincoli alla quota di possesso azionario, e per i divieti di sindacato di voto e di blocco, non possono spingersi sino alla privatizzazione, ma devono arrestarsi alla formazione di un azionariato diffuso, anonimo, quasi in forma di collettivizzazione – art. 43 Cost.).

Il disorientamento, quindi, non è giuridico, ma culturale, ed è dovuto al fatto che la carta d’identità del servizio pubblico radiotelevisivo è andata smarrita. Eppure, senza immaginare grandi sistemi, si potrebbe rintracciare l’identità del servizio pubblico, nel suo contenuto minimo, ricostruendo semplicemente la distinzione tra funzione pubblica ed esercizio privato nel settore televisivo con riguardo all’utilizzo grammaticale e sintattico dell’immagine: lo strumento verbale della televisione.

Già la giurisprudenza dà rilievo alla potenzialità dell’immagine, spiegando la differenza tra diffamazione a mezzo stampa e diffamazione televisiva, più pericolosa quest’ultima per l’immediatezza dell’immagine, meno pericolosa la prima, perché mediata dal testo e dalla sua lettura. La televisione commerciale si vede, il servizio pubblico si “legge”. Il servizio pubblico, diversamente dalla televisione commerciale, deve offrire al cittadino i criteri di “lettura” dell’immagine televisiva, criteri basati sui noti principi della verità, rilevanza, continenza.

La verità come ricerca di punti di vista e non come assioma (come Paolo Barile insegnava), la rilevanza come criterio di selezione del pluralismo e come innovazione (come Massimo Severo Giannini avvertiva), la continenza come formazione e cura di un linguaggio universale (come Sergio Zavoli ha esemplarmente rappresentato). Vi è quindi bisogno non solo di rinnovare una carta di identità “scaduta”, ma di rintracciarne, innanzitutto, il “documento” smarrito. Da qui nasce l’idea del concorso promosso da “Articolo 21”, dalla Fondazione Di Vittorio e da Eurovisioni, con la collaborazione del Ministero dell’Istruzione e di numerose associazioni culturali di settore: un concorso che premierà quegli studenti che avranno descritto, nel modo migliore e in non più di dieci righe, la mission che la Rai dovrà svolgere nei prossimi venti anni “a tutela dei diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2 della Costituzione).


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