Per una volta, dovremmo trarre insegnamento dai cinesi. L’ideogramma col quale rappresentano la parola “crisi”, infatti, è composto da due simboli: uno significa pericolo e l’altro opportunità. Perché la crisi, qualunque crisi, compresa quella devastante che ha investito l’intero Occidente a partire dal 2008, in fondo altro non è che un equilibrio tra il mondo come lo abbiamo conosciuto fino a quel momento e il mondo come potrebbe essere in futuro; e non è detto che le prospettive per il domani debbano essere per forza di cose negative.
Lo diventano, certo, se non si ha il coraggio dell’analisi; lo diventano se qualcuno si mette in testa che il nemico da abbattere sia costituito dai pensionati col retributivo; lo diventano se qualcuno si illude davvero che per competere, per l’appunto, con i cinesi si debba adottare il loro modello di tutele, diritti e dignità del lavoro; ma si trasformano, al contrario, in straordinarie possibilità di rinascita e sviluppo se si comprendono fino in fondo le ragioni che hanno condotto al collasso il sistema economico della parte più ricca e potente del pianeta. E le ragioni sono estremamente semplici: se è vero che la crisi si basa su un gioco di equilibri, è altrettanto vero che quegli equilibri, peraltro fragilissimi, nelle opulente società occidentali si sono spezzati da tempo, da molto prima del disastro dei mutui “subprime” e del fallimento della Lehman Brothers.
Per comprendere a pieno cosa sia accaduto nell’ultimo trentennio, basta leggere alcune riflessioni tratte dall’ultimo saggio (“Banchieri – Storia dal nuovo banditismo globale”) di Federico Rampini: “Il crescendo della finanziarizzazione è implacabile: il settore bancario e dei servizi finanziari rappresentava il 2,8 per cento del PIL americano nel 1950, salì al 4,9 nel 1980, per superare l’8 ai nostri tempi. Si è più che triplicato. Inoltre, fino agli anni Ottanta gli stipendi medi nel settore della finanza erano in linea con quelli delle altre industrie americane. Da allora sono schizzati verso la stratosfera: oggi chi lavora nella finanza guadagna il 70 per cento in più degli altri, a parità di livello”.
Senza contare che tutti i principali responsabili di questa barbarie non solo non hanno pagato per i crimini commessi ma, anzi, si sono pure arricchiti, prosperando sul dolore, sull’incertezza e sulla disperazione dei ceti sociali più deboli, convincendoli che la colpa del loro malessere sia da attribuire alle generazioni precedenti, a coloro che hanno avuto la fortuna di nascere nell’immediato dopoguerra, in quella che Hobsbawm ha definito “età dell’oro” (1946-1973), e soffiando con rara maestria e malvagità sul fuoco dell’invidia e dell’odio sociale, al fine di creare ulteriori tensioni e squilibri e rendere ancora più ignorante e disposto a tutto un popolo oramai allo stremo.
Non è un caso, dunque, se i ragazzi di “Occupy Wall Street” si siano scagliati, due anni fa, contro la dittatura dell’uno per cento, ossia contro coloro che oggi, di fatto, tengono le redini del mondo, contano assai più degli stati e dei singoli governi, che al contrario sono indifesi, e continuano spudoratamente a costruire il proprio impero sulle macerie e sulla miseria altrui, ghignando soddisfatti di fronte al senso di impotenza e afflizione che oramai si è impadronito della collettività: dai giovani agli anziani, dai poveri a quel che resta del ceto medio, per non parlare poi di chi ha perso il lavoro, di chi ce l’ha ma è precario e mal retribuito, di chi è costretto a sottostare a condizioni e ricatti insostenibili e non può fare assolutamente nulla per ribellarsi a questo stato di cose, perché anche i corpi intermedi (partiti e sindacati), che un tempo sarebbero potuti correre in suo soccorso, sono oramai ridotti ai minimi termini quando non del tutto privi della propria credibilità.
È così negli Stati Uniti, certo, ma è così anche in Europa, dove il senso di solitudine e amarezza ha raggiunto, soprattutto nei paesi del Sud, livelli mai visti. Tuttavia, noi un’opportunità di riscatto ce l’abbiamo. Nel 2014, difatti, la presidenza di turno dell’Unione Europea spetterà ai due paesi più martoriati dalla crisi: la Grecia nel primo semestre e l’Italia nel secondo.
Ora, posto che in entrambi i casi bisognerà vedere come queste due nazioni arriveranno all’appuntamento, con quale governo, quale maggioranza e quale situazione socio-economica all’interno, non c’è dubbio che un’occasione del genere sia più unica che rara e che non sfruttarla sarebbe un delitto, in particolare alla luce della persistente ritrosia tedesca ad accantonare questo deleterio regime di austerità e rigore fine a se stesso che, prima o poi, finirà col soffocare l’intera economia del Vecchio Continente, compresa quella, sia pure florida, della ridente Germania.
L’occasione, soprattutto per quanto riguarda l’Italia, consiste nel porre sul tavolo alcune questioni indispensabili per l’evoluzione del progetto europeo: dall’Unione bancaria ai project bonds, dal mutuo soccorso sul tema dell’accoglienza ai migranti a serie politiche di crescita e sviluppo per restituire se non qualche certezza quanto meno un minimo di speranza e fiducia nel domani alle giovani generazioni. Ci sarebbero poi gli aspetti macroscopici della tenuta dell’euro e della necessità oramai improrogabile di cedere gli ultimi brandelli di sovranità nazionale alle istituzioni sovranazionali per agevolare la costituzione degli Stati Uniti d’Europa; tuttavia, ci rendiamo conto che per condurre in porto questi processi ci vorrà tempo e, soprattutto, un’opinione pubblica disposta ad ascoltarli e rendersene partecipe e protagonista.
Il che non accadrà fino a quando le persone saranno costrette a fare i conti con l’impossibilità di coniugare il pranzo con la cena, di formarsi una famiglia, di acquistare una casa, di mettere al mondo dei bambini, di respirare un minimo di libertà, svago e spensieratezza e, più che mai, fino a quando continueremo a scambiare per libertà ciò che in realtà, è l’arbitrio, il sopruso, la violenza e la prepotenza di pochi ai danni degli altri, non perché i primi siano più bravi, più colti o più capaci ma semplicemente perché sono partiti da condizioni socio-economiche migliori e hanno sommato al privilegio iniziale una crudeltà, un cinismo e una ferocia che, purtroppo, al momento, sembrano essere le uniche tre caratteristiche veramente premianti in quest’Occidente senza prospettive.
Per questo, ora più che mai, l’Europa ha bisogno di politica: di una politica sana, autorevole, in grado di regolamentare l’economia e ridurre le diseguaglianze, di restituire un minimo di dignità a un popolo soffocato dalla miseria e dallo sconforto come quello greco e, al tempo stesso, di far pagare i costi di questa maledetta crisi a chi l’ha causata e si augura che non finisca mai e si adopera per questo, considerandola la sua più grande risorsa e la sua insperata e impagabile opportunità di successo. Come asseriva Bertolt Brecht: “Ci sono molti modi di uccidere una persona: si può infilare a qualcuno un coltello nel ventre, toglierli il pane, non guarirlo da una malattia, ficcarlo in una casa inabitabile, massacrarlo di lavoro, spingerlo al suicidio, farlo andare in guerra. Solo pochi di questi modi sono proibiti nel nostro Stato”.
Noi, all’opposto, per tornare a sentirci veramente liberi, abbiamo bisogno di un’Europa in cui chiunque abbia il diritto di vivere dignitosamente e il dolore e la sofferenza degli ultimi non siano costantemente sottomessi alle logiche del mercato.