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“L’Italia segreta dei sequestri”. Intervista al magistrato/scrittore Ferdinando Imposimato

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Un’altra prova magistrale di scrittore e saggista per il Giudice delle Verità scomode, Ferdinando Imposimato, magistrato di spicco, giudice istruttore nei casi più scottanti della storia italiana e presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione; ma anche Grand’Ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica e già senatore. Reduce dal successo del volume “I 55 giorni che hanno cambiato la Repubblic”a, grazie al quale la Procura di Roma ha disposto la riapertura del caso Moro, Imposimato torna protagonista in libreria con L’Italia segreta dei sequestri (Newton Compton), sfoderando ancora una volta l’anima dell’investigatore e la vena del grande narratore, e ricostruendo, con precisione documentale, la storia dei rapimenti in Italia negli anni ’70 e ’80, dal caso Sindona a quello Orlandi. Presentando il libro a Roma, l’ex magistrato ha illustrato i punti salienti della sua ultima fatica letteraria.

Qual è la sua opinione sulla sorte di Emanuela Orlandi?
«Sostengo la tesi della pista bulgara e delle infiltrazioni della Stasi: sta di fatto che nel 1997 Ali Ağca mi invitò nel carcere di Ancona, in cui era detenuto, e mi raccontò una lunga storia. Mi disse che nel carcere di Rebibbia, nel 1983, due sedicenti giudici bulgari lo avevano minacciato di morte. Uno di questi, Jordan Ormankov, si era recato al bar con Ilario Martella, giudice istruttore nell’inchiesta per l’attentato al Papa, e l’altro, Stevan Markov Petkov, ne aveva approfittato per confidargli in lingua turca che entrambi erano agenti del Kgb e che avevano rapito Emanuela Orlandi per ottenere la sua liberazione. Quindi, gli chiesero di “distruggere” il processo e di ritrattare le proprie dichiarazioni, altrimenti avrebbe fatto la stessa fine della ragazza. Gli dissero anche di aver minacciato il giudice Martella».

Che conferme ha ricevuto sulla veridicità di questa versione?
«La conferma giunse da Martella, che non aveva mai parlato prima con nessuno delle minacce subite. Inoltre, potei verificare che i due sedicenti giudici bulgari arrivarono a Roma il 20 giugno 1983 e ripartirono il 24: ossia due giorni prima e due giorni dopo il rapimento Orlandi. Ma non vennero in Italia per incontrare me o Martella, piuttosto si recarono in ambasciata: è un chiaro indizio. Oggi siamo in possesso di tracce sufficienti per spiccare molti mandati di cattura. Ma la maggior parte di queste persone, ahimè, è morta».

Emanuela poteva salvarsi?
«Altre ragazze si salvarono: prima di ripiegare su Emanuela, ad essere pedinate erano state altre cittadine vaticane, già pochi giorni dopo l’attentato al Papa, il 13 maggio 1981. Come ho verificato nei rapporti dei Carabinieri, presentati al processo Orlandi, ad essere sotto osservazione furono le figlie di Angelo Gugel, aiutante di Camera del Papa, che abitavano nello stesso stabile dell’Orlandi; ed anche la moglie e la figlia di Camillo Cibin, capo della vigilanza vaticana. Tuttavia, i servizi segreti francesi informarono Gugel che presto alcuni cittadini vaticani sarebbero stati rapiti. Questi mise in guardia Cibin. Le ragazze furono messe al sicuro. E si ripiegò sulla famiglia Orlandi, all’oscuro di tutto: la pista internazionale è più che evidente».

E Mirella Gregori?
«Il collegamento tra i due rapimenti è certo. Mirella, fotografata pochi giorni prima del sequestro con papa Wojtyla e per questo prescelta, doveva servire a ricattare il presidente Pertini affinché concedesse la grazia ad Ağca. E la mia ipotesi è che, purtroppo, sia stata soppressa».

In questo libro torna a parlare del caso Moro, rinnovando la sua verità.
«Tutto ruota intorno alla questione incredibile della prigione: ancora oggi, a 35 anni di distanza, non si sa ufficialmente dove sia stato tenuto Moro. Com’è noto, fu rapito dalle Brigate Rosse, dopo lo sterminio della scorta. Ma fu condotto in un luogo che non è mai stato indicato. Sennonché, io ebbi la ventura, e anche la sventura, di trovare questo luogo due anni dopo la morte dello statista: in via Montalcino numero 8 interno 1. Non l’avessi mai trovato: questa prigione non doveva essere scoperta; lì si celavano i nomi di coloro che potevano liberare Moro e che furono fermati da un ordine perentorio del Ministero dell’Interno e, come ho scritto decine di volte, di Cossiga ed Andreotti. Anche il generale Dalla Chiesa ricevette l’ordine di non intervenire».

Anche il suo fu un destino tragico.
«Ed è certissimo che egli abbia firmato la propria condanna a morte proprio palesando l’intenzione di liberare Moro. Dalla Chiesa fece un errore gravissimo: rivelò a Mino Pecorelli, giornalista di Op, che il ministro dell’Interno conosceva la prigione di Moro e gli aveva impedito di intervenire. E Pecorelli riportò queste indiscrezioni sulla sua rivista, nominando Dalla Chiesa con lo pseudonimo di Amen. E di lì a poco entrambi morirono. La Corte d’Assise di Perugia condannò in primo grado Giulio Andreotti per l’omicidio Pecorelli, riconoscendo il movente proprio nelle notizie in possesso del giornalista sulla vicenda Moro».

Nel libro parla anche di un nuovo testimone.
«Sì, ho raccolto la testimonianza dell’artificiere Raso, inviato dal Ministero degli Interni in via Caetani, tre ore prima che le Br comunicassero dove si trovava la Renault 4 rossa con il corpo di Moro: evidentemente al Ministero dell’Interno già sapevano tutto. L’8 maggio 2011, insieme ad alcuni amici del Centro Ricerche Aldo Moro di Bari, ho provato a collocare una lapide in via Montalcino. Ma il sindaco ha negato l’autorizzazione. Insomma, questo mistero sopravvive perché le istituzioni non si rassegnano a dire la verità».

Nel libro tratta anche di sequestri non legati alla Politica. Perché il caso Papaldo è emblematico?
«Perché dimostra come spesso da inquirenti e giornalisti vengano formulate ipotesi fantasiose che poi conducono sulla strada degli errori giudiziari. In questa circostanza, a rischiare di farne le spese è stato un Renzo Arbore agli albori della carriera. Infatti, il 22enne Francesco Papaldo era il giovane direttore del locale notturno Francis, di proprietà anche di Arbore. Dopo la sua scomparsa, il pubblico ministero De Nardo fece convergere i sospetti su Arbore, adducendo, sulla scorta dei rapporti dei Carabinieri, che il ragazzo fosse coinvolto in un giro di coca. Questa convinzione e una serie di deduzioni pseudo logiche stavano per portare all’arresto del musicista. Ma, come giudice istruttore, disattesi le richieste del pm e salvai Arbore: evitai così una campagna diffamatoria simile al caso Tortora. Papaldo, infatti, era stato assassinato da un antagonista in amore: una vicenda torbida di passioni e tradimenti».

Perché alcuni sequestrati furono vittime due volte?
«Spesso la persona scomparsa subiva il disprezzo e la calunnia: si sosteneva che fosse fuggita volontariamente con qualcuno, come si disse del magistrato Giuseppe Di Gennaro, scomparso nel 1975. Sulle prime, i giornali scrissero che era scappato con un amante omosessuale; invece era stato rapito dai Nap. Altre volte, si sosteneva la tesi della simulazione di reato per spillare soldi alla famiglia: Renato Filippini, sequestrato per due mesi, una volta liberato fu arrestato con l’accusa di aver inscenato il rapimento».

Lei evidenzia anche un triste destino, comune alle famiglie dei sequestrati. Cosa accadeva?
«Un caso esemplare è il rapimento di Paul Getty III e dell’atteggiamento di totale chiusura del nonno, il famigerato miliardario Paul Getty I, che si rifiutò di pagare il riscatto. Il ragazzo subì l’amputazione dell’orecchio e la sua vita fu completamente sconvolta. Effettivamente, quasi tutti i sequestrati sviluppavano un rancore nei confronti dei familiari, ritenuti responsabili di non aver fatto abbastanza per salvarli o per alleviarne le sofferenze. Così, sistematicamente, si producevano spaccature insanabili all’interno delle famiglie».

È avvincente anche il suo racconto di alcuni capibanda, come Laudavino De Sanctis. Chi era?
«Un feroce bandito, meglio noto con il nome di Lallo lo zoppo. Fu l’unico ad evadere dal carcere di Regina Coeli. Fu autore di una serie incredibile di omicidi e sequestri di persona finiti nel sangue, perché agiva a volto scoperto e, così facendo, era costretto a eliminare l’ostaggio, diventato un testimone scomodo, come nel caso dell’ingegner Ciocchetti. Ma la vicenda più drammatica fu quella di Palombini, il re del caffè di Roma: nonostante gli ottanta anni d’età, riuscì a fuggire miracolosamente dalla roulotte in cui era recluso e, incautamente, bussò ad un uscio nelle vicinanze. Ad aprirgli fu la moglie di uno dei rapitori complici di Lallo. Questi lo uccise e pose il corpo in un congelatore: così, lo tiravano fuori, gli mettevano un paio di occhiali, i giornali in mano, e convincevano i parenti che l’ostaggio fosse ancora vivo, facendosi consegnare il riscatto».

Grazie a lei mutò la strategia per risolvere i casi di sequestro. Come agì?
«Va premesso che dai contatti tra rapitori e familiari, il giudice istruttore veniva escluso: i parenti delle vittime ritenevano opportuno intrattenere delle trattative, senza il coinvolgimento delle forze dell’Ordine. Questa tesi prevaleva anche sui giornali: a loro parere, così si tutelava l’incolumità dell’ostaggio, laddove proprio così la si metteva in pericolo. Roma era diventata la mecca dei sequestratori: imperava il terrore. Allora decisi che, in presenza di un sequestro, si intervenisse militarmente, dando l’ordine di sparare sui rapitori che andavano a ritirare il riscatto. Insomma, a dispetto della tesi dominante, feci valere quello che diceva anche la Legge: il legittimo uso delle armi. Imposi la linea superdura, e da quel momento la situazione cambiò radicalmente: sgominammo molte bande di rapitori, tra cui quella dei Marsigliesi. E così riuscimmo a catturare, anch’io pistola in pugno, questo Lallo lo zoppo, liberando la ragazzina di 11 anni, Mirta Corsetti, che teneva in ostaggio».

Per il rapimento di Michele Sindona, invece, nessun intervento militare.
«Questo fu un caso emblematico: andava stabilito, innanzi tutto, se si trattasse di un vero o di un falso sequestro. La fotografia di Sindona, con una ferita da arma da fuoco all’inguine, emersa durante le indagini, mi indusse ad optare, verosimilmente, per la tesi del sequestro di persona. Non potevo immaginare si trattasse di una simulazione. Ma emisi un mandato di cattura per estorsione nei confronti di alcuni mafiosi che mi consentì di entrare in contatto, in America, con Fbi e Cia e di fornire loro un frammento di carta, rinvenuto presso un mafioso e che riportava l’indicazione di un volo aereo Francoforte-New York. L’Fbi, così, riuscì a risalire al volo, interrogò tutti i passeggeri e scoprì che uno di loro, tale Joseph Bonamico, in realtà era Sindona. Lo confermavano le sue impronte digitali sul documento di sbarco. Era la prova che non era stato rapito: così, fu accusato dell’omicidio Ambrosoli a Milano, del traffico di droga a Palermo dal giudice Falcone, e da me di simulazione di sequestro a scopo di estorsione».

Per poi morire in carcere. Suicidio o omicidio?
«Morì avvelenato con il cianuro, ma secondo la versione ufficiale suicidato. Prima di morire urlò: “Mi hanno ammazzato!”, ma non ho mai visto un suicida che si comporti così. Del resto, seppi in seguito da un dirigente del carcere che fu avvelenato per ordini giunti dall’esterno. Solo dieci giorni prima di morire, aveva ricevuto la visita di un personaggio di grosso calibro affiliato alla P2. La sua fu una storia davvero straordinaria…».


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