Franco Cordero
ABBIAMO una guardasigilli alquanto vulnerabile. Era prefetto, chiamata agli Interni dal Quirinale nel governo cosiddetto tecnico: e interloquendo in materie che non le competono, versava sdegno sugli indaganti palermitani. Colpevoli d’ascolto sacrilego perché nei nastri dell’intercettazione d’un ex ministro (trattativa Stato- mafia) s’era inopportunamente infilato Giorgio Napolitano; raccoglie voti nella corsa al Colle; e sbocciate le «larghe intese», riappare in via Arenula, custode dei sigilli; straripando dai quali, mercoledì 17 luglio telefona ex abundantia cordis a Gabriella Fragni, compagna del finanziere don Salvatore Ligresti, arrestato con le due figlie, Jonella e Giulia (Paolo latita). L’imputazione riguarda bilanci falsi Fonsai: era un’importante società; secondo gl’inquirenti, la spolpavano ab intra, roba d’un miliardo. Madame ministro condanna la misura cautelare definendola ingiusta, quattro volte, anzi nemmeno pensabile (così intendiamo la frase esclamativa «non esiste»), come se tali questioni non competessero al tribunale della libertà; e qualcosa forse sa nel merito, visto che Piergiorgio Peluso, suo figliolo, occupava un posto eminente nella svaligiata, uscendone dopo un anno, liquidato con 3,6 milioni d’euro. Giulia Ligresti ne parla assai male; vi allude anche lei dolendosene: «maledetto quel giorno» in cui suo figlio scopriva l’abisso nei conti. Non è contesto adatto a chi dipana le fila ministeriali della giustizia; e il peggio viene poi, quando offre aiuto: «qualsiasi cosa io possa fare». Frase ambigua perché «potere» significa due stati talvolta dissonanti: l’essere forte (in tedesco, «können») e l’agire lecito (dürfen»); tra i cultori del potere nel primo senso (ad esempio, i mafiosi) la forza diventa tanto più importante, quindi ammirevole, quanto meno lecito sia l’atto. L’equivoco s’aggrava nell’offerta ripetuta: «qualsiasi cosa adesso serva, non fare complimenti »; le parole pesano. Era «solidarietà umana», racconta alle Camere, 5 novembre, e non trovando niente da obiettare, i parlamentari governativi l’applaudono. Scena trionfale. L’ovazione, condivisa dal Pd, vale in decoro quel famoso voto con cui Montecitorio negava la competenza del Tribunale milanese, presupponendo una Ruby dama egizia, nipote d’Osni Mubarack o almeno tale ritenuta da Silvius Magnus, così scaltro nel pesare gli animali umani. Dovunque restino barlumi d’etica, in casi simili il ministro scompare radendo i muri.
Nell’Italia attuale gli standard del lassismo sono larghi quanto le intese. L’affare pareva sepolto ma emergono fatti nuovi. Davanti alle Camere madame l’ex prefetto giustificava l’effusione 17 luglio come impulso umanitario. Resta sommerso un secondo colloquio, affiorante nel racconto 22 agosto al pubblico ministero torinese venuto ad ascoltarla: «effettivamente», il 19 agosto riceve una telefonata da Antonino Ligresti, in ansia per la nipote Giulia, e avverte i due vicecapi del dipartimento; atto «assolutamente doveroso»; non ha più parlato dell’argomento. Ma in fondo al verbale sopravviene una battuta reminiscente: ieri sera, 21 agosto, un sms dal predetto domandava se vi fossero novità; e lei ha risposto d’avere segnalato il caso; nient’altro. I tabulati danno una sequela diversa: lunedì 19 agosto è lei che telefona, 6 minuti; e così mercoledì 21, 7 minuti. Nell’intervista 14 novembre al «Corriere della Sera» parla d’un vuoto mnemonico, improbabile, rispetto ad atti importanti della sera precedente; non se ne ricordava, altrimenti perché nasconderlo? Incauta domanda retorica. Sono immaginabili vari motivi. Vengono ancora fuori sei telefonate dal marito Sebastiano Peluso ad Antonino Ligresti nelle tre settimane successive all’arresto, quando era in atto una complessa manovra liberatoria. Insomma, il racconto all’indagante risulta falso in un punto (il colloquio 17 agosto non era l’ultimo), vago dove ammette d’avere risposto al successivo sms (era una sua lunga telefonata), reticente sul fitto dialogo SP-AL.
L’interessata risponde nella flebile lettera aperta 15 novembre: sì, erano sue le telefonate 19 e 21 agosto; rispondeva a chiamate della vigilia. Plana nelle nuvole sui colloqui del marito: suvvia, è pura ipotesi che parlassero della detenuta; Antonino è medico e lo consultavano. Tra le rispettive famiglie esiste «lunghissima amicizia», con qualche annesso, visto il fulmineo transito milionario nella Fonsai del Peluso junior. Il clou della questione sta nel rapporto interno al clan. Possibile che Qurinale, Palazzo Chigi, Camere non l’abbiano capito? Le dignità ministeriali implicano self-restraint, anche in un paese sbracato dal ventennio berlusconiano; «amicizia» è parola assente nel lessico ministeriale serio. I dottori discutevano se fosse legittimo decidere «pro amico» i casi risolubili in entrambi i sensi: no, secondo l’opinione autorevole; qualcuno li chiama «casus pro diabolo» (vedi Leibniz nello scritto giovanile De casibus perplexis, IX). Qui il ministro ha evidente interesse in causa: fosse giudice, sarebbe ricusabile d’emblée; ed è un goffo pugno sul tavolo la frase in cui «rifiuta ogni sospetto». Qualunque cosa pensi de se ipsa (s’è definita «esemplare»), vigono ancora regole d’etica (lasciamo da parte la questione penalistica sul detto o taciuto al pubblico ministero). Il fronte indulgente annovera berluscones (pour cause) e quirinalisti: Massimo D’Alema salta fuori dalla scatola, rutilante in sorrisi, piccole smorfie, gioco d’occhi (Tg3, 15 novembre); uno ukase dal Colle benedice l’impenitente ordinando che «l’azione del governo prosegua»; Letta nipote scatta sull’attenti, «caso chiuso». La nomofobia berlusconiana fa scuola sotto segno monarchico. L’esito del caso Cancellieri dirà molto sulla patologia politica italiana. Finché Dominus conservi gli spiriti animali, le colombe evase dalla voliera saranno comoda lobby: passano generazioni prima che una compagnia mercenaria diventi destra liberale; giaculatorie d’amore patrio suonano come monete false.