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“La vita di Adele” ★★★★☆ – di A. Kechiche

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di Roberta Ronconi – E’ come vedere un quadro molto da vicino, o avvicinarsi a una scultura per spiarne le ombre tra le pieghe. Un primo piano su un momento di vita di una giovane donna, Adele. Del resto, lo esplicita il titolo, “La vita di Adele” di Abdellatif Kechiche, film tanto amato dal pubblico e dalla giuria di Cannes da ricevere il massimo del plauso, la Palma d’oro, all’ultima kermesse. Come in un quadro o in una scultura, sembra non sia molto da raccontare, se non un istante. Eppure in quell’istante si racchiude l’intera parabola umana, l’estasi e il tormento di una storia d’amore che inizia e finisce, come tutto nella vita. E prima che essa trovi una nuova forma cui adattarsi, nuove pieghe da assumere, c’è una sorta di immobilità sofferente nel ricordo, incerta nel futuro. Il fatto che il sottotitolo ci indichi si tratti del 1 e 2 capitolo della vita di Adele, fa pensare che un futuro ci sarà, comunque.
In questa prima parte, incontriamo Adele appena diciassettenne, incerta sulle sue scoperte sessuali, convinta di avere qualcosa che non va fino a quando non incontra la sua prima vera passione in una ragazza dai capelli blu. Un incontro che pare predestinato, quindi inevitabile, apparentemente eterno. Ma così non è, la strada del destino prenderà ad un certo punto altre svolte.
Sulla trama non c’è altro da dire, non è quella la via dello sguardo. Piuttosto Kechiche ci costringe ad entrare quasi nel corpo di Adele, a sentire la sua fisicità, la bocca i capelli il sesso, non c’è altro di lei, continuamente. Siamo sballottati come la sua coda tormentata dall’elastico, come le sue labbra sporche di sugo o di muco, come le sue mani che scavano nel corpo dell’amante.
Chi non ha apprezzato questo film ne ha giudicato la morbosità. Che c’è, eccome. E’ quella del regista e la nostra, inevitabile quando si vuole andare a vedere fino in fondo. E per quanto faccia male sapere che il set è stato un inferno per tutti, soprattutto per le due attrici principali (Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux) , ma anche per l’intera troupe che da sempre denuncia Kechiche di “sevizie lavorative” (di lui in Italia ricordiamo “La schivata” e “Cous Cous”), per quanto tutto ciò sia deplorevole, viene da pensare che senza un certo quantitativo di sofferenza non si raggiunge il momento di grazia. Quello, appunto, che qui Kechiche è riuscito ad intrappolare. Per poi restituirlo a tutti noi, con semplicità e senza alcun orpello pornografico, nonostante le lunghe sequenze di amore lesbico. La perfezione di un momento nella vita di Adele e nella nostra.


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