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La banda dimenticata

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Uno tra i più brillanti film della commedia nordamericana anni settanta – «La Stangata» di George Roy Hill con Paul Newman e Robert Redford, con la famosa colonna sonora di Bacharach – in cui si descrive con sagacia l’esprit della truffa, fa pensare all’italica gara delle frequenze televisive. Truffa o non truffa si vedrà, certo una colossale presa in giro.
Dopo polemiche astiose la vicenda sembra finita nel dimenticatoio. E dire che, in epoca di crisi economica e di affannosa ricerca di proventi nella legge di stabilità, una seria asta delle bande di trasmissione avrebbe dato una boccata d’ossigeno finanziaria, oltre che un po’ di pluralismo antitrust. Si potevano reperire opportunità per evitare qualche taglio. Nell’agosto del 2011, dopo il varo del terribile decreto dei tagli di Tremonti, si rilanciò la proposta di istruire una gara onerosa per la parte dello spettro costituito dalle frequenze televisive digitali da assegnare a nuovi operatori. Un’asta vera e propria, con notevole successo, era stata peraltro espletata nelle telecomunicazioni, dotate di maggior forza in termini assoluti, ma non toccate direttamente dal conflitto di interessi come il mondo del video. E qui chi tocca prende la scossa. E chissà se con la decadenza di Berlusconi verrà a decadere anche il «timore di Dio» che anima da almeno trent’anni la politica italiana quando si occupa (o non si occupa) dell’argomento. La gara onerosa poteva dare qualche fastidio alla concentrazione politico-mediatica al potere? Certo, al punto che persino il buon senso viene meno. Se l’asta si fosse tenuta – come suggerito tra l’altro da una minoranza illuminata in seno all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni – al momento del passaggio dal sistema analogico a quello numerico nel 2009 molto sarebbe cambiato. E la potenzialità della «rivoluzione» digitale avrebbe aumentato diritti e libertà, non la quantità aritmetica dei canali lasciandoli nell’orbita del duopolio-monopolio Rai-Mediaset. Non andò così e forse furono bruciati quattro miliardi di euro, quanto incassato dall’asta gemella per le comunicazioni mobili «Lte». Il caso fu riaperto e il governo Monti abrogò il cosiddetto «beauty contest» (dizione graziosa per dire cessione gratuita), l’Agcom mise mano al regolamento attuativo, l’incartamento venne spedito a Bruxelles da cui erano partite da tempo procedure di infrazione. Poi il silenzio, il vuoto pneumatico.
Governo e Agcom sembrano appagati dagli annunci, la gara per i nuovi multiplex è una chimera. O una metafora della situazione abnorme di un’Italia predata dall’occupazione privata di uno dei fondamentali beni comuni. Perché nessuno risponde su di un tema sensibile e certo delicato? Il campo televisivo era e rimane un far-west, in cui leggi e regole sembrano valere solo per i soggetti deboli. Come le emittenti locali, ormai prossime alla chiusura. Nel disinteresse e nell’assenza di strategia. E che fine ha fatto la «spectrum review» che doveva mettere qualche ordine nell’universo tecnologico cruciale per qualsiasi sviluppo? Malgrado tutto – e dirlo ora sembra paradossale – il berlusconismo vive e vegeta, sopravvive al suo stesso fondatore. Anzi, forse l’impero televisivo è il vero «salvacondotto» per il Re Media.
Eppure, la vecchia talpa scava e ci dice che si potrebbe fare come è stato deciso dalla bella legge Argentina, che attribuiva una porzione delle risorse tecniche al mondo della scuola e dell’università, al non profit, ai soggetti del bene comune. Chi può e chi deve batta un colpo. Si eviti un’altra stangata. E il silenzio non è d’oro.

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