In Corea lo chiamano ‘’selca’’ (abbreviazione di “self camera”). Wikipedia lo descrive come ‘’un tipo di autoritratto fotografico preso soprattutto con camere digitale o smartphone e diffuso all’ interno dei social network. E l’ Oxford dictionary, qualche giorno fa lo ha proclamato ‘’parola dell’ anno 2013’’.
E’ il selfie*. In italiano qualcuno parla di ‘’autoscatto’’, ma il termine non contiene il ventaglio semantico che selfie esprime.
André Gunthert , un acuto studioso di fotografia e cultura iconografica, spiega infatti su Culture Visuelle che ‘’più che un oggetto fotografico’’, il selfie è una ‘’manifestazione delle nuove conversazioni connesse’’.
E il successo recente di un termine attestato dal 2002, aggiunge, è ‘’legato alla sua identificazione come stile grafico, accelerato dalla sua riutilizzazione da parte dei people sulle reti sociali (in particolare Rihanna su Twitter).
Una forma che esisteva dal debutto del cam-phone, il cellulare che scatta foto, e cioè dagli inizi degli anni 2000, ma senza suscitare interessi particolari, appare ora come specifica e riconoscibile.
Osserva Gunthert:
L’ appropriazione del selfie da parte del people è un gesto molto caratteristico delle nuove gerarchie culturali. Mentre la star prima era quella da fotografare e la cui immagine serviva da modello, le reti sociali hanno imposto una forma di normalizzazione ‘’dal basso’’. Per stare più vicine ai loro fan le celebrità adottano dei comportamenti vernacolari e consentono la diffusione di una immagine di loro stesse senza alcuna ‘’scenografia’’, spontanea, intima – cioè di cattiva qualità.
Si tratta di una inversione dei modelli: non è più il pubblico che imita le star, ma queste ultime che imitano il pubblico.
Il selfie non è un ritratto ‘’regale’’ che vale per la qualità dell’ immagine o la bellezza del modello. Nessun ritocco e nessun filtro. E’ un ritratto dentro un contesto, una immagine connessa da inviare sul momento per trasmettere ai propri contatti la visione più immediata, come se ci potessero percepire in diretta. Ed è anche una immagine la cui autenticità è attestata dalla sua realizzazione personale, che preferibilmente deve essere visibile nel quadro.
Tutte queste caratteristiche esistono dal tempo dei primi autoscatti con i cellulari fatti dagli adolescenti giapponesi. Il primo modello di cam-phone, commercializzato da Sharp nel novembre 2000, aveva un piccolo specchietto su una delle facce, per facilitare l’ autoritratto. Le immagini promozionali non lasciano alcun dubbio: lo strumento è stato pensato per permettere l’ autoscatto dalla distanza del braccio grazie a un obbiettivo grandangolo (quello che fa il naso grosso e quindi incoraggia a scattare la foto in ‘immersione’, per attenuare questo effetto).
I modelli successivi aggiungeranno un secondo obbiettivo. Da notare che è la prima volta che l’ apparecchio fotografico integra dall’ origine la possibilità dell’ autoritratto. Si tratta di una vera rottura perché la camera è uscita da un’ idea dell’ immagine che presuppone un mondo tagliato in due – teatro del visibile da un lato, quinta della scena dall’ altro – che non è previsto si incontrino. Per fare un ritratto di sé con un apparecchio fotografico bisognava fino ad allora ‘’raggirare’’ la macchina, utilizzando uno specchio e automatizzando l’ inquadratura, oppure chiedere un aiuto. Protetto dall’ immunità del gadget invece il cam-phone rovescia tranquillamente questa tradizione.
L’ accusa di narcisismo che si può formulare nei confronti dell’ autoritratto dipende in realtà dall’ uso che se ne fa. Immagine connessa, il selfie si presenta come una proposta di interazione in un contesto conversazionale. Narciso non vedeva che se stesso, non si interessava che alla sua immagine. Probabilmente non avrebbe mai aperto un account su Twitter, né dialogato con i suoi fan.
Il selfie è quindi tutto il contrario del narcisismo: è lo strumento di uno scambio sociale che si presta alla discussione e può d’ altronde essere commentato sul filo dell’ ironia.
L’ identificazione recente del selfie e la sua amplificazione mediatica hanno prodotto una rilevante infatuazione, che si traduce nella ricerca dei primi autoritratti fotografici, il ritocco di ritratti (come quelli qui sopra) o di dipinti celebri con l’ aggiunta di uno smartphone ideale. La viralità di questa appropriazioni dimostra la vitalità dello stile e il suo carattere emblematico. Come se il selfie fosse la firma maliziosa di una cultura visuale che si è finalmente riconosciuta.
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*- Una infografica dell’ Oxford Dictionary: http://oedblog.electricstudiolt.netdna-cdn.com/wpcms/wp-content/uploads/infographic-selfie-post.jpg
– Il primo selfie? Quello della Granduchessa russa Anastasia Nikolaevna che all’ età di 13 anni usò uno specchio per scattare un autoritratto fotografico che inviò a un amico nel 1914. Nella lettera scriveva: ‘’E’ stato davvero difficile fare la foto perché mi remavano le mani’’ (Wikipedia).
– Raffale Mastrolonardo: Mi auto-fotografo, dunque sono. Nell’era della connessione a Internet permanente per avere la certezza della propria esistenza non c’è bisogno di ricorrere ai ragionamenti di Cartesio e al suo “cogito ergo sum”. Basta tirare fuori lo smarpthone, puntarlo su se stessi, scattare una foto e poi pubblicare il risultato sul web. Saranno “mi piace” e “commenti” a dirci se facciamo o no parte di questo mondo molto più in fretta del dubbio iperbolico del filosofo secentesco.
– Il Secolo XIX dà anche consigli su come ottenere un sellfie perfetto e lancia un concorso rivolto ai lettori.
Da lsdi.it