«Onore è una di quelle parole che gli ‘ndranghetisti, i mafiosi e i camorristi hanno sottratto al vocabolario degli onesti». Come hanno sottratto Vangelo, battesimo e Santa a quello dei credenti. Acqua santissima. La Chiesa e la ‘ndrangheta: storie di potere, silenzi e assoluzioni (Mondadori), il nuovo libro del magistrato Nicola Gratteri e dello storico delle organizzazioni criminali Antonio Nicaso (nella foto), è un viaggio coinvolgente e documentatissimo nei meandri occulti della ‘ndrangheta, nella ritualità ipocrita e asservita al potere di boss e affiliati, è la riflessione impietosa e dolceamara su una Chiesa fatta di Fra Cristofori e di don Abbondi, di preti coraggio e di sacerdoti conniventi. Antonio Nicaso, maggior esperto mondiale di ‘ndrangheta, ripercorre in questa intervista i punti salienti del suo libro-verità, con il piglio del grande narratore e lo slancio appassionato di un vero Uomo di Giustizia.
Guardare la ‘ndrangheta dall’interno, scavare nei suoi riti e nei suoi simboli: da quale necessità nasce questo libro?
«È il nuovo libro della serie di volumi in cui abbiamo cercato di spiegare le origini, ma anche lo sviluppo, di questa organizzazione. La ‘ndrangheta, come abbiamo sempre affermato, è una patologia del potere perché è un’organizzazione criminale che non ha mai difeso i deboli o i poveri contro ricchi o potenti. Inizialmente ha costituito uno strumento nelle mani della classe dirigente e, pertanto, ha sempre avuto bisogno di una legittimazione sociale che ha trovato nella Chiesa, ottenendo consenso e visibilità sul territorio. Basti dire che le processioni sono state funzionali a logiche di potere: per molto tempo gli ‘ndranghetisti si sono contesi il privilegio di portare a spalla il fercolo del santo patrono, e spesso le processioni sono state utilizzate per presentare alla cittadinanza i nuovi affiliati».
Quando nasce questa devozione ‘ndranghetista?
«Questa attenzione verso i santi e verso la Chiesa è sempre esistita nella ‘ndrangheta, secondo la logica tipica di molte organizzazioni criminali, quella logica secondo cui ogni violenza, anche la più feroce, abbisogna di una sua sacralità. Quindi, gli ‘ndranghetisti hanno utilizzato la religione anche in chiave di autoassoluzione, si sono creati un Dio a propria immagine e somiglianza, molto diverso da quello amato dal popolo di Cristo e dai cattolici. Perché, il Dio degli ‘ndranghetisti è un Dio tollerante e che giustifica, un Dio che libera gli assassini dal senso di colpa; e anche quando uccidono, affermano di essere stati costretti, che la vittima non ha dato loro un’alternativa. Del resto, chi riesce ad annullare il senso di colpa può fare di tutto, anche dichiarare di aver ucciso la persona che ha ucciso perché ha eseguito un ordine divino».
Colpisce che alla figura del mafioso si associ quella di un fervido praticante: come spiegare questa contraddizione?
«Semplice: la religione è stata funzionale ai mafiosi. Hanno mutuato la loro ritualità dalla liturgia ecclesiastica. Hanno utilizzato nomi come il Vangelo o la Santa per identificare alcuni ranghi importanti all’interno della ‘ndrangheta. I sacramenti sono stati sottoposti alle logiche di potere dei clan, servendo a sancire alleanze. Insomma, la religione cattolica è stata violata, usurpata, strumentalizzata dalla ‘ndrangheta per tanto tempo; nessuno ha mai avuto il coraggio di dirlo e la Chiesa non ha avuto il coraggio di fare quello che ha fatto, ad esempio, con i massoni o con i comunisti. Non ha mai negato i sacramenti agli ‘ndranghetisti come ha fatto con i divorziati. È una Chiesa che, forse, non si è mai interrogata sul concetto di perdono».
Un perdono per troppi?
«La Chiesa deve essere misericordiosa e perdonare tutti, però il perdono deve tenere conto della conversione, e questa non può non dare frutti nella società. I mafiosi non possono pentirsi davanti a Dio ma non farlo di fronte agli uomini, perché chi si pente davanti agli uomini è un infame. Ecco, queste logiche andrebbero spazzate via con voce ferma».
La voce ferma, di cui parla, nel vostro libro ha anche il nome di emarginazione e scomunica. Ma la Chiesa sembra, a riguardo, sulla difensiva.
«Questo atteggiamento rischia di far credere a tutti che “la Chiesa sia grande perché ognuno ci sta dentro a modo proprio”, come diceva don Mariano Arena ne Il giorno della civetta. Se la Chiesa non riesce a mettere a frutto gli insegnamenti pastorali, non riuscirà ad affermare apertamente che non esistono ‘ma’ e ‘se’, con il rischio di trovarsi sul territorio vescovi e vescovi, preti e preti. Ossia preti coraggiosi, che rischiano e si espongono in prima linea, e altri che sono codardi e timorosi e si voltano dall’altra parte. La Chiesa deve trovare la forza di esprimersi in modo chiaro, ma non soltanto a livello di princìpi».
Può bastare la presa di posizione della Cei?
«La Conferenza Episcopale Italiana, con il documento del 2010, ha espresso probabilmente una condanna forte, definendo le mafie “una struttura di peccato”. Però, nel momento in cui si definiscono così, nel momento in cui si beatifica don Pino Puglisi in quanto martire della Fede, la Chiesa dovrebbe indicare fermamente a tutti i parroci cosa va fatto e cosa no, ed evitare che sussista quel margine di discrezionalità che porta alcuni vescovi e sacerdoti a negare i funerali ai boss ed altri a celebrarli in pompa magna; alcuni preti a denunciare la ‘ndrangheta e le mafie, altri a rintanarsi nelle sacrestie. Questa ambiguità rischia di non lasciare messaggi chiari e inequivocabili».
Sacerdoti in prima linea e sacerdoti-don Abbondio. Ma esistono anche quelli conniventi, come il prete che, al corrente di un prossimo agguato mortale, non lo denuncia. Passato o presente?
«Il caso citato è recentissimo, come recenti sono i casi di alcuni sacerdoti che in tribunale hanno testimoniato in favore di persone rinviate a giudizio e processate per associazione mafiosa. Purtroppo la storia di questo genere di rapporti è una storia di luci ed ombre: accanto a sacerdoti coraggiosi, come don Calabrò che ha la forza di definire i mafiosi “uomini del disonore”, ci sono ancora quelli che preferiscono tacere o si comportano in modo discutibile in nome dell’opportunità e contrariamente alla morale».
Nell’immaginario collettivo, i sacerdoti coraggiosi sono soprattutto don Pino Puglisi e don Peppe Diana. Ma voi raccontate molte altre storie dimenticate.
«Esattamente: nessuno sapeva, ad esempio, dell’omicidio dei due sacerdoti don Antonio Polimeni e don Giorgio Fallara, uccisi nel 1862 ad Ortì perché avevano denunciato la ‘ndrangheta, che allora si chiamava Picciotteria, e dimenticati dalla stessa Chiesa: di questa vicenda, non c’era traccia neanche nell’archivio diocesano di Reggio Calabria. È chiaro che, pensando ai martiri della Chiesa, si pensi a don Puglisi e don Diana. Ma la memoria è importante e da essa è possibile costruire, giorno per giorno, una dimensione di lotta e di resistenza, proprio nel nome di coloro che sono stati uccisi e non devono essere dimenticati. E per riuscirci, è necessario raccontare le tante storie, le luci e le ombre, chiarire che se la Chiesa è una, è fatta, però, di uomini; e gli uomini non sono tutti uguali, ci sono uomini e uomini, come le dita di una mano».
Questa battaglia a favore della verità è concretamente in atto?
«Solo negli ultimi tempi ci sono state reazioni forti e ora bisogna dar voce a queste reazioni e a queste forme di resistenza. Purtroppo, l’aspetto profetico spesso si ferma ai piani bassi della gerarchia ecclesiastica, non riesce ad emergere. Ci sono vescovi che continuano ad amare il quieto vivere anziché l’azione e la denuncia. Continuano a predicare che la misericordia di Dio è grande e che bisogna perdonare tutti. Ma noi diciamo che bisognerebbe anche tenere conto del danno sociale di certi atteggiamenti e di certe azioni delittuose, perché il peccato non può essere considerato soltanto come un’offesa a Dio. Il peccato ha spesso implicazioni sociali, è anche un’offesa alle leggi e alla società. Bisognerebbe tenere conto della sofferenza cagionata alle vittime. Quindi, se nella misericordia di Dio vogliamo riaccogliere coloro che hanno peccato e vogliono convertirsi, il modello da tenere presente è quello di Zaccheo, che nel Vangelo restituisce tutto quel che ha rubato e ancora di più».
Ha percorso la gerarchia ecclesiastica fino al vertice: papa Francesco darà nuova linfa a questa battaglia?
«Papa Francesco rappresenta una speranza: anche perché sta cercando di mettere in discussione la Chiesa del potere, si sta interrogando sulla necessità di avere una banca e, come ripete spesso, ricorda quel che diceva Gesù Cristo: “Il mio regno non è di questo mondo”. Insomma, sta mettendo il dito nella piaga, perché la Chiesa dell’amore è inconciliabile con la Chiesa del potere. Accanto a tante belle iniziative benefiche e missioni, si annoverano anche speculazioni finanziarie e transazioni sospette passate attraverso lo Ior. Questo nuovo papa è il primo a mettere in discussione la banca vaticana: Giovanni Paolo II si era limitato a denunciare la mafia “che uccide e semina lutti nella valle dei tempi”, senza dibattere sullo Ior e su Marcinkus.».
E la Chiesa è pronta a questo cambiamento?
«La Chiesa può continuare lungo la strada dell’ambiguità, con sacerdoti missionari da un lato e cardinali traffichini dall’altro. Oppure può imboccare la strada indicata da Francesco che è quella che dovrebbe riportare la Chiesa alle origini, lontana dalle lusinghe del potere, come giustamente ha sottolineato proprio in questi giorni anche il cardinale Maradiaga, a capo degli otto saggi nominati dal pontefice: “Via le poltrone di troppo, Ior sotto vigilanza”. Se la Chiesa deciderà la strada indicata da Francesco, se si compatterà in quella direzione, sarà sicuramente la Chiesa del nulla di troppo, del nulla di troppo poco».
Non ha citato Benedetto XVI. Quel papa Benedetto che, come raccontate nel libro, inviava alla figlia di un boss un telegramma di auguri per il matrimonio. Semplice svista?
«Sicuramente il pontefice non era a conoscenza di questo: esiste un ufficio preposto a dispensare benedizioni a destra e sinistra e che è sufficiente contattare per ottenere una pergamena con la benedizione del papa o un telegramma di auguri. Tuttavia, il problema vero riguarda le strutture di base, quelle che non potevano non sapere che gli sposi fossero la figlia del supremo Pasquale Condello e il figlio di un presunto affiliato. Del resto, leggere in Chiesa un telegramma inviato dal papa è un modo per legittimare ulteriormente la supremazia del boss. È quanto fa anche il boss Giulio Lampada quando fa battezzare la figlia a san Pietro e dichiara ai magistrati di aver pagato un avvocato in Vaticano per ottenere questo privilegio. Purtroppo la Chiesa fa questo, e lo fa in cambio di soldi. Rientra nella stessa categoria il caso, sempre di Lampada, che, grazie alla segnalazione di un vescovo calabrese, viene insignito dell’ordine di san Silvestro Papa, e il boss si vanta che ora in tutte le diocesi lo dovranno chiamare eccellenza, come gentiluomo del papa. Basterebbe scorrere la lista pubblicata sulla gazzetta della Santa Sede per accorgersi che lo stesso riconoscimento era stato attribuito anche a faccendieri di alto bordo».
Come un tale Roberto Calvi.
* Il libro Acqua Santissima sarà presentato martedì 26 novembre a Roma, presso la libreria Feltrinelli di piazza Colonna, alle ore 18:00.