“Lettera al Papa”. Intervista a MAURIZIO BEKAR

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Bekar, la soluzione individuale è spesso stata quella di trovarsi qualche santo in paradiso; undici membri della Commissione nazionale lavoro autonomo hanno deciso, invece, di scrivere al Papa…..
Circa metà dei colleghi della commissione ha deciso, a titolo individuale, di far propria l’idea lanciata da alcuni di noi: scrivere a Papa Francesco sul tema della precarietà e dello sfruttamento che investe chi opera nell’informazione. L’iniziativa quindi – è bene precisarlo – non investe la Commissione in quanto tale. Perché Papa Francesco? Perché la sensibilità mostrata anche recentemente dal Pontefice verso il lavoro che non c’è, il precariato e lo sfruttamento, ad esempio a Cagliari, illumina scenari molto aderenti alla condizione della nostra professione.

Una metà dei membri della Commissione non ha, comunque, sottoscritto la lettera-appello. Si è trattato di una divisione laici-credenti?
Assolutamente no. Le diverse sensibilità hanno portato alcuni membri ad aderire, altri no. Ma, per essere espliciti, l’iniziativa non è stata oggetto di una votazione e, certamente,  non ha evidenziato divisioni di natura ideologica, culturale o religiosa. Io, ad esempio, ho firmato, ma sono un laico con matrici familiari protestanti ed ebraiche.

E, dunque, perché rivolgersi al Papa?
“In un Paese di sordi, in cui le istituzioni sono le prime a non saper e voler ascoltare, per farsi ascoltare ci si appella  alla misericordia divina”: questa battuta di una nostra collega ci ha convinti ad inviare la lettera. Non è, certo, la prima volta che parliamo di questi problemi, di cui abbiamo investito ambiti diversi. Io stesso recentemente ho affrontato questi temi nella sede della Consulta Nazionale del Lavoro Professionale della CGIL. Ma, visto come funziona il “mercato” della comunicazione, quell’intervento ha suscitato molto meno clamore rispetto a quello che stiamo osservando in questi giorni intorno all’iniziativa della lettera al Pontefice.

Perché affermi che sul tema dello sfruttamento e del precariato nel lavoro giornalistico le istituzioni appaiono sorde?
Abbiamo sul tavolo l’attuazione della legge sull’equo compenso che è ferma da più di sei mesi con il governo che, nella apposita commissione, non si vuole impegnare e che rimanda ad un improbabile accordo tra sindacato e associazioni degli editori; la legge istitutiva dell’equo compenso non dice questo, anche perché se gli editori avessero voluto autonomamente applicare un equo compenso non ci sarebbe stato bisogno dell’intervento del legislatore. Il governo deve prendersi le sue responsabilità.

I dati ufficiali che dicono che un 60% degli operatori dell’informazione è ormai un lavoratore autonomo, un free lance, a me sembrano approssimati per difetto…
Sono d’accordo con te. Il limite di questi dati “ufficiali” è che fanno riferimento al lavoro giornalistico correttamente configurato, ovvero con riscontri sulla contribuzione Inpgi; in questa maniera non si “vedono” il lavoro totalmente a nero o che fa riferimento ad altri enti contributivi, ovvero all’Inps. Ci sono poi molti giovani “senza tessera” professionale che, quindi, non possono essere censiti dagli Ordini regionali. La galassia del lavoro giornalistico non correttamente regolamentato, sfruttato e non garantito, è ancora più estesa. Basta guardare come, in tante testate, funziona il lavoro in qualsiasi testata per rendersene conto.

Ma i freelance, i lavoratori senza contratto da dipendenti del mondo dell’informazione, cosa chiedono? Semplicemente di essere meno sfruttati o anche di passare da non garantiti a garantiti?
La risposta è articolata. Moltissimi freelance che operano attraverso fittizi contratti di collaborazione, cococò,  con partita iva, ecc., avrebbero pienamente il diritto di essere riconosciuti come lavoratori dipendenti, perché gli strumenti appena citati sono solo un mascheramento del loro reale rapporto di dipendenza.  Ovviamente la maggior parte degli editori resisterebbe e resiste ad una regolarizzazione e, peraltro, se venissero regolarizzati tutti quelli che ne hanno diritto il comparto dell’editoria salterebbe per aria perché ormai vive, o sopravvive, proprio grazie allo sfruttamento di collaboratori e freelance. Ci sono poi molti giornalisti che non hanno intenzione – oltre che possibilità – di acquisire un contratto di lavoro dipendente, semplicemente perché si sentono più liberi di interpretare la propria professione da battitori liberi. Allo stesso tempo, però, vorrebbero essere tutelati in logica di equo compenso, e interrompere il circolo vizioso dello sfruttamento  che in molti casi porta a “pezzi” pagati cinque euro o poco più. Il concetto di fondo è che ad eguale lavoro dovrebbe corrispondere la stessa remunerazione, e che quindi un freelance dovrebbe essere pagato per quello che realmente produce e non essere, invece, sfruttato perché non in organico.

Veniamo ora ai rapporti interni alla professione. La Commissione Lavoro autonomo è ben supportata dalla FNSI, entro la quale svolge la sua funzione?
La commissione presenta profili particolari. Per un verso è un vero e proprio sindacato di base, perché i suoi membri sono eletti su base regionale direttamente dai freelance: piena espressione democratica, dunque. Dentro la FNSI assume però la funzione di una sorta di commissione consultiva che non ha piena autonomia di iniziativa. Siamo così stretti in una sorta di camicia di forza; ciò nondimeno la nostra Commissione ha autonomamente elaborato l’unica piattaforma sull’equo compenso che è stata poi avanzata sui tavoli legislativo e ministeriale dalla FNSI. Io penso che, comunque, nel futuro questa struttura e la sua collocazione all’interno del sindacato debbano essere ripensate e riformate.

Tornato all’inizio della nostra conversazione, cosa prevedete? Il papa vi risponderà?
La lettera è stata consegnata direttamente nelle sue mani, e aspettiamo di vedere cosa accadrà.


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